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di Gian Carlo Zanon
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Pochi giorni fa ho finito di leggere L’anniversario, il libro di Andrea Bajani che ha vinto il premio Strega 2025.
Finito di leggere, sono andato a vedere la fotografia che appare nel risvolto di copertina. Vicino a me c’era Barbara alla quale ho chiesto: “guarda questo sguardo. Che ne pensi?”. Lei ha risposto “sta male”. Infatti in questa immagine, in cui appare uno stentato sorriso, gli occhi rivelano una fissità, un malessere… forse anche un bisogno di aiuto.
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Molti scrittori scrivono libri senza rendersi conto che quei testi sono messaggi in bottiglia in cui, inconsapevolmente, sono vergati messaggi di aiuto… in queste frasi sento grida disperate che giungono da regioni remote di una realtà umana squassata fin dalle fondamenta da un tragico vissuto. Un vissuto che, purtroppo, conosco bene.
Un vissuto oppressivo tacitamente presente, in varia misura di gravità e di latenza, in moltissime famiglie in balia di uno o più famigliari schizoidi. Un vissuto che qui prende forma letteraria… a volte meta-letteraria in quanto l’autore a volte si insinua nel racconto come per dire: non vi preoccupate non sono io, è solo un romanzo.
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Già nella prima pagina troviamo due righe stranianti: «Vista con gli occhiali della scrittura, la scena assume le sembianze di una danza, un piede dell’uomo all’indietro e uno di donna a rincalzo, un altro passo di figlio, ancora uno di madre (…)» Per poi continuare a pagina 17 con: «Che sia successo o meno adesso è ininfluente, è l’inizio del romanzo». Poi ancora a pagina 29: «Questo accedere, attraverso l’invenzione, a ciò che il ricordo non possiede, è precisamente la forza brutale del romanzo. Che si disinteressa quasi sempre del reale e fornisce sempre il vero»…poi ancora a pagina 112 «Non ricordo nulla del pranzo dai miei genitori se non che non c’era mia sorella. Né credo ci sia d’altra parte molto da ricordare. Nemmeno da dentro la scrittura c’è niente che si stacchi dallo sfondo, se non il momento del congedo sulle scale. Ogni ricostruzione che ne posso fare è materia da romanzo, non solo perché richiede che l’immaginazione porti sulle spalle l’esperienza, ma perché quel pranzo avvenne dentro una finzione. Dentro una finzione che si era protratta per quarantuno anni giorno dopo giorno.»
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Leggendo questo romanzo a volte si ha come la sensazione di aprire una matrioska in cui i pur crudi ricordi della voce narrante sono solo la superficie di un interno che si rivela sempre più mostruoso. La via di fuga del protagonista narratore è costruita con parole che cercano, a volte in tono quasi cinico, di sfuggire al “vero” alludendo a una narrazione romanzata… e questo è il sintomo che potrebbe rivelare ricordi-verità insopportabili che l’autore tenta di mitigare con un annullamento altalenante che potrebbe rivelare un malessere insuperato.
Se è vero che l’ennesima matrioska ci dice che è tutto invenzione, è vero anche che quello sguardo nel risvolto di copertina dice il contrario e potrebbe indicare una identificazione, e quindi una più o meno cosciente complicità, del protagonista con la figura paterna… ipotesi anche confermata a pagina 41: «Temevo, così facendo – ovvero andando a trovare la madre in una situazione lavorativa che per lei rappresentava un tentativi di affrancamento dalla morsa oppressiva – di diventare complice di quel suo attentato al monolitismo famigliare». Monolitismo famigliare di cui lui faceva giocoforza parte essendo incapace di ribellarsi. Infatti la sorella a pagina 40 lo incolpa di essere un vigliacco. La sua è identificazione, più o meno parziale, che ha lasciato il segno nel sintomo di una depressione angosciante.
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Non posso sapere se l’autore abbia letto e/o abbia avuto presente Lettera al padre di Franz Kafka. Dico questo perché la lettera che Kafka scrisse al padre, senza mai inviargliela, ha molto a che vedere con questo romanzo soprattutto per la lucidità della visioni che i due scrittori hanno della complicità tra i genitori. Infatti nemmeno Kafka, nella lettera al padre, è indulgente con la madre di cui aveva individuato la complicità che lo inchiodava al rapporto devastante con un padre schizoide: «La mamma rivestiva inconsciamente il ruolo del battitore in una battuta di caccia. (…) grazie alle sue ‘intercessioni’ io venivo risucchiato nella tua orbita, alla quale, altrimenti, sarei riuscito a sottrarmi.» http://www.igiornielenotti.it/kafka-lettera-al-padre/
Ed è esattamente quello che accade al protagonista di questo romanzo in cui, fino all’ultimo, la madre sta dalla parte del padre e cerca di far tornare il figli all’interno di quella lunga “stagione all’inferno”.
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Se non ci fosse un figlio che racconta, dalla propria angolazione, tutta la vicenda famigliare, questa narrazione sarebbe l’ennesima cronaca maledetta che vede uno psicotico creare lentamente ma inesorabilmente un «piccolo universo concentrazionario» costruendolo come un labirinto con tante camere stagne. Un labirinto fatto da molti divieti dove la “legge del padre” incombe minacciosa. Un labirinto dentro il quale un castrato psichico, un po’ alla volta, costringe una donna impedendole di realizzarsi socialmente. Un labirinto da dove non si esce vivi perché la fuga spesso finisce con un femminicidio. Infatti ciò che l’autore riesce a rendere perfettamente è l’atmosfera opprimente e minacciosa che pervade le mura domestiche e che trova il proprio apice durante i pranzi e le cene in cui tutti devono recitare la parte di figlio, figlia e moglie felice e obbediente per evitare che “il minotauro” vada in escandescenze che a volte finiscono con violenze anche fisiche.
Il titolo del romanzo vorrebbe sottolineare la data di una separazione che, a mio parere, non si realizza pienamente perché l’apparizione fantasmatica della madre che a volte si va a sovrapporre al viso del figlio del protagonista «non fa bene, e non fa male». Siamo in un limbo affettivo.
Non si realizza pienamente anche perché lo sventurato finisce nelle grinfie di una psicoterapeuta schizogena che si assenta, anche fisicamente, durante le sedute di psicoterapia (lo faceva anche Lacan) riproponendogli così l’immagine della madre assente che passa i suoi anni «a sottrarsi, a non esistere né per sé né per i figli». Persino nelle foto da ragazza si nota «una specie di distacco, come se si dimenticasse di esserci davvero, di essere presente». «Mia madre era distratta perché, pur di salvarsi, si era trasferita altrove, in uno spazio intermedio tra il succedersi della cose e il suo prenderne atto». L’assenza, la superficialità, la finzione, il ripetere e il ripetersi “non è successo nulla”, è la trappola mortale in cui si rinchiude tentando di rinchiudere anche il figlio. Tentativo in gran parte riuscito.
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Solo il rapporto con una donna realizzata dà inizio alla distruzione del «feticcio famigliare». Una donna che accortasi della mostruosità dei rapporti famigliari, in cui si viveva una finzione permanente, gli chiede «Ma chi sono quelle due persone? (…) E soprattutto chi sei tu?»
Lei si era accorta immediatamente della ottusa violenza latente del padre-padrone e dell’assenza psichica della madre…e l’assenza in presenza è ciò che uccide la realtà umana dei bambini fin dalla culla… e se non sei definitivamente morto, di fronte alla richiesta di una donna così, devi rispondere con un “io sono…”
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Come ho già detto, L’anniversario dovrebbe scandire la data di una separazione… ma per separarsi è necessario attraversare a ritroso l’immenso spazio dei ricordi cercando di ritrovare un momento di bellezza capace di salvarti dall’orrore: «la bellezza che, naturalmente ricordo, le pizze estive, le camminate in montagna con mio padre, (…) la delicatezza che a tratti gli scorgevo tra le mani, vederlo ballare da solo – certo di non essere visto – davanti allo stereo che suonava, (…) il suo portarmi sulle spalle».
Poche memorie necessarie, queste del protagonista, per liberarsi affettivamente da una identificazione che sarebbe potuta essere mortale e che invece, a mio parere, ha lasciato qualche strascico di troppo che andrebbe affrontato… magari attraverso il rapporto col bambino, magari permettendogli che si realizzi pienamente… perché se è vero che i rapporti umani fanno ammalare è anche vero che i rapporti umani curano.
Ci si deve separare senza annullamento e per farlo è necessaria l’arte della separazione. Non è sufficiente una separazione/annullamento in cui fai sparire l’oppressore allontanandoti solo fisicamente… annullandolo come se non fosse mai esistito.
Certo la separazione fisica è quanto mai necessaria ma poi l’uccisione-separazione dal padre va elaborata e rielaborata… magari con l’aiuto di un sogno in cui il figlio dice al padre, che pretende la paternità: “tu non mi ha generato, io sono nato da solo”.
16 Luglio 2025