• E. A. Poe : William Wilson – testo completo –

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    Che dir di ciò? che dir della coscienza austera,

    Spettro sulla mia strada?

    Chamberlaine, Pharronida

     

    Lasciate che io mi chiami, pel momento, William Wilson. La pagina che mi s’apre bianca dinanzi non dev’essere insudiciata dal mio vero nome il quale è stato troppo spesso oggetto di spregio, d’orrore e d’abbominio per la mia famiglia. Non ne hanno forse divulgata l’incomparabile infamia i venti sdegnati, fin nelle più remote contrade del mondo? Ahimè, il più abbandonato fra tutti i proscritti! Non sei tu dunque morto per sempre a questo mondo? Ai suoi onori, ai suoi fiori, alle sue aurate ambizioni? E non s’è forse frapposta per l’eternità, tra le tue speranze e il cielo, una sinistra e spessa nube della quale non è consentito scorgere dove finisca?

    Non vorrei, quand’anche fosse in mio potere, affidare a queste pagine le memorie dei miei ultimi anni di innominabile miseria, di imperdonabili delitti. Quest’ultimo periodo della mia vita m’ha condotto a un’altezza di turpitudine della quale non voglio che determinare l’origine. Questo e nessun altro è, nella presente occasione, il mio scopo. Gli uomini, di solito, diventano vili poco alla volta: quanto a me, ho perduta tutt’intera la mia virtù, in uno stesso istante, d’un sol colpo, al modo stesso che si perde un mantello. Da una perversità relativamente comune, sono pervenuto, con un solo passo da gigante, a tali enormità che nemmeno Ellogabalo ne sarebbe stato degno.

    Consentite così che vi narri minuziosamente qual caso, quale unico accidente m’abbia addotto a tanta maledizione. Si sta avvicinando la Morte e l’ombra che la precede ha reso più mite il mio cuore. Così, passando per la triste valle, io ricerco la compassione e la pietà – stavo per dire – dei miei simili, elevando un fiotto di sospiri. Vorrei che si persuadessero com’io non sono stato se non lo strumento di circostanze indipendenti da ogni umano controllo. Vorrei che discoprissero, fra mezzo al Sahara di errori che si contempla in ciò che imprendo a narrare, una qualche oasi di fatalità. E che riconoscessero, infine, quanto non potranno rifiutarsi di riconoscere e che cioè non esistette mai uomo – quantunque questo mondo conosca le più grandi tentazioni – che ne subisse di tal sorta né, tanto meno, che per quelle dovesse tanto abbassarsi. Sarebbe forse proprio a causa di questo che nessuno ebbe a soffrire ciò che io invece soffersi? Ovvero io avrei abitato, finora, dentro a un sogno e mi trovo, ora, a morir vittima dell’orrore e del mistero della più stravagante fra tutte le visioni sublunari?

    Io discendo da una stirpe che s’è distinta, nei tempi, per l’indole fantasiosa e proclive all’eccitazione. I miei primi anni provarono che avevo ereditato, dai miei avi, quel carattere in pieno. Col passar del tempo, nondimeno, questo carattere si fece in me più spiccato e per numerosi motivi fu causa d’inquietudine tra i miei amici e un fornite di positivo pregiudizio per me. Mi abbandonai, così, ai più selvaggi capricci, alle più irrefrenabili passioni. I miei genitori, deboli nello spirito, e anch’essi torturati dai miei stessi difetti, poco fecero – come poco avrebbero potuto fare – per reprimere le mie riprovevoli tendenze. Tentarono – è vero – qualcosa, ma assai fiaccamente e del tutto fuor di proposito. Così che non approdarono a nulla, mentre io trionfavo assoluto. Da quel tempo la mia parola fu legge in famiglia, per modo che, a un’età in cui la maggior parte dei fanciulli vengono riguardati, io venni affidato al mio più assoluto arbitrio e mi trovai padrone, eccetto che nel nome, di tutte le mie azioni.

    Le mie prime impressioni di scolaro fan tutt’uno col ricordo d’una vasta e bizzarra costruzione in stile elisabettiano in un lugubre villaggio inglese, pieno di alberi giganteschi e nodosi, e dove tutti gli edifici erano contraddistinti da una secolare antichità. Quella veneranda cittadina era, per la verità, un luogo di sogno, fatto apposta per affascinare lo spirito. E persino, al ripensarvi ora, mi sovviene della fresca sensazione delle fonde ombre dei suoi viali, mi par di respirare l’odore dei suoi mille tigli e trasalisco, compreso d’infinito piacere, al momento in cui mi par d’udire il rintocco sordo e grave della campana che rompeva sinistramente, d’ora in ora, l’atmosfera quieta e oscura nella quale era immerso, addormentato in tutti i suoi pinnacoli, il campanile gotico.

    Questi minuti ricordi della scuola e, comunque, delle fantasticherie che accompagnarono quel tempo, son tutto quello che resta a testimoniare e a convogliarmi seco, talvolta, di quei piaceri andati. Preda qual io mi sono, ahimè, della sciagura – la quale è soltanto anche troppo reale – mi si perdoni s’io cerco un lieve ed effimero conforto nel riandare quei teneri svaghi infantili. Minimi e ridevoli di per se stessi, essi acquistano, d’altro canto, una loro importanza nella mia fantasia per l’intima connessione che hanno coi luoghi e con l’epoca nei quali sono costretto a rinvenire le prime ambigue avvisaglie del Destino che proiettò, sul mio cammino, la sua ombra intensa e devastatrice fin da quel tempo beato. Consentite, dunque, che io ricordi.

    La casa, secondo ho già detto, era antica e di costruzione irregolare. Le terre attorno erano ampie e un alto e saldo muraglione di mattoni, incoronato da uno strato di malta dov’erano stati incastrati frammenti di bottiglie e di altri oggetti di vetro, lo recingeva d’ogni banda. Tale cinta – la quale era invero degna d’un carcere – segnava i confini del nostro dominio. Noi non portavamo il nostro sguardo oltre di essa se non tre volte per settimana. Una volta, al pomeriggio del sabato, allorché ci era consentito di fare delle brevi passeggiate collettive per la campagna circostante, in custodia dei prefetti, e due volte alla domenica, allorché venivamo condotti, incolonnati come soldati, ad assistere agli uffizi della mattina e della sera nell’unica chiesa del villaggio. Il direttore della nostra scuola era, nel contempo, pastore di quella chiesa.

    Con quali profondi sensi di timore e di reverenza io non lo contemplavo dai nostri banchi relegati su in alto, nelle tribune, quando egli saliva sul pulpito a passi lenti e solenni! Mi chiedevo come quel personaggio venerabile, dall’aspetto tanto umile e benevolo, dall’abito così ben spazzolato e ondeggiante alla maniera degli ecclesiastici e dalla parrucca tanto finemente intrecciata e incipriata, potesse essere il medesimo uomo il quale, con espressione acida, e tutta sudicia la persona di tabacco, faceva dianzi eseguire, ferula alla mano, le draconiane leggi della scuola. Bizzarro e smisurato paradosso la cui mostruosità impediva qualsiasi soluzione.

    Da un angolo della murata che recingeva la scuola, guardava una porta ancor più massiccia dello stesso muro, la quale era saldamente sbarrata, fornita d’un chiavistello e sormontata da una corona di punte acuminate di ferro. Essa ci ispirava i più profondi terrori. Non accadeva giammai che si aprisse se non per le tre sortite, con le relative rientrate, di ogni settimana e nello stridere che allora faceva sui cardini, noi ci trovammo sopraffatti da una profondità di mistero che schiudeva, alle nostre vergini menti, un intero mondo di solenni meditazioni.

     

    Il lungo recingimento era irregolare, per la forma, e diviso in più parti delle quali le tre o quattro più vaste fungevano da corte di ricreazione. Quest’ultima era spianata e coperta d’uno strato di ghiaia fine e scricchiolante. Rammento bene che essa era nuda al tutto, senza che vi si potessero scorgere né alberi, né panche, né altro oggetto simile. Si apriva, naturalmente, sul retro dell’edificio mentre davanti alla facciata vegetava una sorta di piccolo giardino coltivato a bossi od altra sorta di arbusti, il quale costituiva una sacra e vergine oasi che ci era dato di attraversare assai raramente, e soltanto, cioè, in occasioni come quella del nostro arrivo a scuola e della nostra definitiva partenza da essa, ovvero in quell’altra nella quale, affidati a un amico o a un parente che era venuto a prenderne, ci avviavamo, pieni di gioia, alla volta della casa paterna, durante le vacanze natalizie o in quelle estive.

    Ma la casa! Qual vecchio e bizzarro edificio non era la casa! E qual, per me, palazzo di magia! Dove potesse aver fine l’inestricabile labirinto dei suoi anditi, e delle sue suddivisioni, era impossibile comprendere, ed in qualsivoglia momento era difficile stabilire con sicurezza dove ci si trovasse, se al primo, ovvero al secondo piano, dal momento che si era sempre sicuri di trovare due, tre e finanche quattro gradini da salire o da scendere in ciascun passaggio da una stanza all’altra. Gli scompartimenti laterali, poi, erano innumerevoli: giravano e rigiravano e finivano poi così bene con l’incontrarsi l’uno nell’altro che le idee che potevamo avere, relativamente all’edificio nel suo insieme, non erano molto diverse da quelle altre in virtù delle quali studiamo di farci informati dell’infinito. Per tutti i cinque anni che vi passai dentro, non fui mai buono a determinare, infatti, in quale punto fosse precisamente l’angusto dormitorio che mi era stato assegnato assieme a una ventina di altri scolari.

    L’aula destinata allo studio era la più vasta di tutto l’edificio e di tutto il mondo: tale, almeno, mi sembrava. Più lunga che larga e sinistramente bassa, riceveva luce da finestre ogivali e possedeva un soffitto di quercia. In un suo remoto cantuccio – oggetto di terrore, per noi – era riservato un recinto quadro, largo da otto a dieci piedi, il quale rappresentava il sanctum del direttore, reverendo dottor Bransby, nelle ore in cui eravamo riuniti a studiare. Era una solida costruzione, dalla porta massiccia, ma noi, pur quando il maestro di scuola era assente, avremmo preferito morire della peine forte et dure anziché arrischiarci ad aprirla. In altri due angoli della sala sorgevano altre due tribune eguali che, seppure incutevano una venerazione men profonda, era pur tuttavia enorme il terrore che ne emanava: la cattedra, l’una, del professore di discipline classiche, del professore di quelle matematiche e d’inglese, l’altra. Sparsi dappertutto per la sala erano innumeri banchi e leggii gravi per il peso di antichissimi libri sudici di ditate; essi erano disposti con tale disordine ed erano così logorati dal tempo e tatuati d’iniziali, di nomi, d’immagini grottesche e d’altre consimili mirifiche invenzioni del temperino, che avevano del tutto smessa la forma d’origine conferita ad essi, un tempo, dall’immemorabile passato. Una enorme secchia colma d’acqua era, inoltre, a un capo dell’aula e all’altro s’ergeva un orologio d’incredibili proporzioni.

    Fra le massicce pareti di questo venerando istituto, io passai, senza che potessi, nondimeno, provare alcuna noia e alcun disagio, gli anni che occuparono il terzo lustro della mia vita. La mente dei fanciulli, feconda d’immaginazione, non ha bisogno degli incidenti esteriori per occuparsi e divertirsi, e la sinistra monotonia della scuola fu popolata, per me, di più intensi eccitamenti che non quelli richiesti, in seguito, dalla mia giovinezza alla voluttà, e dalla mia virilità al delitto. E tuttavia sono portato a credere che la mia intelligenza si sviluppò, in principio, in modo tutt’affatto anormale e sregolato. Una volta ch’egli è pervenuto alla maturità, gli avvenimenti dell’infanzia non lasciano solitamente, nell’uomo, un’impressione ben conformata. Ogni cosa s’ingrigia simile a un’ombra e gli intrighi confusi di tenui piaceri e fantasiose angosce s’annebulano in un vago e irregolare ricordo. Occorre che io abbia inteso, nella mia infanzia, con l’energia dell’uomo adulto, tutto quel che trovo ancora segnato nella mia memoria a tinte vive, profonde e durature, com’è l’esergo delle monete cartaginesi.

    E nondimeno, per quel che era il fatto in sé e per sé – dal punto di vista, almeno, dal quale la gente giudica d’usato simili accidenti – v’era assai poco da serbarne memoria. La sveglia al mattino, l’ordine d’andare a coricarsi la sera, le lezioni, le rappresentazioni, i brevi periodi di vacanza, le passeggiate, le contese durante la ricreazione nella corte, i giuochi, gli intrighi e i complotti, tutte queste cose, insomma, per lo smagamento dell’anima, disperso di poi, portavano seco una folla di sensazioni, un universo ricco e variegato d’avventure e delle più svariate emozioni, come pure degli eccitamenti più ebbri e passionati. «Oh, le bon temps, que ce siècle de fer!».

    La mia focosa, altera, entusiasta natura non tardò, per la verità, a farmi eccellere tra i miei compagni, e mi diede, man mano, un notevole ascendente su coloro almeno che non erano più grandi di me: su tutti, tranne uno. Era costui un allievo che, senz’essermi tuttavia legato da alcuna parentela più o meno lontana, portava oltre il mio nome di battesimo, anche il mio stesso nome di famiglia. Tale circostanza, per la verità, non deve meravigliare troppo, dal momento che il mio, nonostante la nobile origine, era uno di quel nomi del tutto comuni che, per una sorta di prescrizione, sembrano essere stati, fin dai tempi dei tempi, di dominio pubblico. Ho così assunto, nell’odierno racconto, il nome di William Wilson, il quale è nome fittizio ma non per questo troppo discosto dal vero. Tra coloro i quali, per usare un’espressione della scuola, facevano parte della nostra classe, il mio omonimo soltanto osava gareggiar meco negli studi come anche nei giuochi e nelle competizioni delle ore di svago. Egli era il solo che si rifiutasse di credere alle mie asserzioni con quell’assoluta cecità con cui gli altri solevano, che non soffrisse di sottomettersi alla mia volontà, che contrastasse, insomma, in tutti i possibili modi e casi, alla mia dittatura. E notate che non v’è sulla terra dispotismo assoluto quanto quello d’un fanciullo di genio sui suoi compagni di più modeste risorse.

     

     

    La ribellione di Wilson era fonte, per me, di grave imbarazzo: soprattutto per la ragione che – nonostante la millanteria con la quale lo trattavo in pubblico, a motivo di tutte le sue pretese – sentivo, nel fondo, di temerlo e, d’altra parte, non potevo impedirmi di considerare come una dimostrazione di superiorità – dal momento che ero costretto a uno sforzo continuato per evitarne la supremazia – proprio quello stato di eguaglianza ch’egli si studiava di mantenere nei miei riguardi. Questa superiorità, o comunque emulazione, non era avvertita che da me soltanto, e per una inspiegabile cecità, sembrava che i nostri compagni non ne serbassero il più lontano sospetto. E difatto la sua resistenza, la sua rivalità e il suo malizioso e impertinente attraversarmi ogni disegno, non andavano oltre i limiti d’una intenzione strettamente personale. Egli sembrava del tutto esente dall’ambizione che mi spingeva a dominare, come anche dalla passione vivificatrice che me ne dava la forza: nell’esercizio di tale rivalità, si sarebbe potuto dire che egli agisse da null’altro sospinto che da un energico sprone a contraddirmi, a sbalordirmi e a mortificarmi, quantunque io non potessi far di meno che accorgermi, alle volte – non senza stupirmene e adirarmene insieme – ch’egli accompagnava i suoi oltraggi, le sue impertinenze, le sue contraddizioni con una cert’aria di affettuosità affatto inopportuna.

    È probabile che tale ultimo tratto del comportamento di Wilson, come pure la nostra omonimia e l’essere entrati nel collegio lo stesso giorno, contribuissero a far credere, al nostri condiscepoli delle classi superiori, che noi fossimo fratelli. Costoro, infatti, non erano usi d’informarsi, con esattezza, di ciò che riguardava i più giovani. Ho già detto che Wilson non era in alcun modo imparentato con la mia famiglia. Pure, non v’è dubbio che, ove fossimo stati fratelli, saremmo stati gemelli dal momento che, secondo appresi casualmente quando lasciai l’istituto del dottor Bransby, il mio omonimo era nato anch’egli – né questa coincidenza mancherà d’impressionare! – il 19 gennaio 1813, e cioè nel medesimo giorno in cui ero nato io.

    Potrà sembrare curioso che, nonostante la continua apprensione nella quale vivevo a causa della sua rivalità e del suo insoffribile spirito di contraddizione, io non fossi portato, in definitiva, a detestarlo del tutto. Una nuova contesa sorgeva tra noi due ogni giorno, ed egli pur accordandomene, in pubblico, la palma, si studiava, in privato, di farmi in qualche modo edotto che il merito doveva attribuirsene a lui soltanto. E nondimeno, l’orgoglio dalla mia parte e la dignità dalla sua impedivano che varcassimo i limiti d’una stretta convenienza, quantunque i nostri caratteri fossero talmente simili in talune particolarità da risvegliare, in me, un sentimento che soltanto i nostri rapporti di tensione impedivano di maturare in amicizia. Tentare una definizione o una descrizione soltanto del mio verace atteggiamento verso di lui m’è del tutto difficile: esso costituiva, difatti, un eterogeneo amalgama e multicolore in cui avevano parte una ostinata animosità non ancora pervenuta a trasformarsi in odio, la stima, e, più ancora che la stima, il rispetto, alquanto timore, e una grandissima, impaziente curiosità. Per il moralista non sarà mestiere aggiungere – egli l’ha già compreso! – che, fra tutti i nostri camerati, Wilson ed io eravamo, di gran lunga, i più inseparabili.

    La stravaganza e l’ambiguità dei nostri rapporti fu essa soltanto – non può esservi dubbio! – a fare in modo che tutti i miei assalti contro di lui, i quali, nascosti o dichiarati che fossero, erano ben numerosi, si disfogassero nell’ironia e nella caricatura anziché in una seria e determinata ostilità. Non è forse il sarcasmo a produrre le ferite più profonde? Ciò nondimeno, per quanto ingegno impiegassi nell’ordire i miei piani, i miei sforzi, anche con quel mezzo, non erano sempre vittoriosi, giacché il mio omonimo possedeva un’indole austera e contegnosa, la quale, pur pervenendo a godere gli effetti delle proprie punture, riusciva, tuttavia, a non esporre il tallone d’Achille e a sottrarsi a ogni specie di ridicolo. Io non ero capace di sorprendere in lui alcuna zona vulnerabile se non una, la quale consisteva in una imperfezione fisica derivata da una infermità costituzionale: qualunque antagonista, meno accanito di quanto io non fossi, l’avrebbe risparmiata. Il mio rivale era afflitto da una imperfezione della laringe che non gli consentiva di elevare la voce più alto d’un sommesso mormorio. Da tale imperfezione non mi facevo scrupolo di trarre ogni possibile vantaggio.

     

    Per contro, le rappresaglie di Wilson erano della specie più svariata, e una, sopra tutte, riusciva a turbarmi fuor di misura. In qual modo egli abbia avuto, fin dal principio, la sagacia d’indovinare che una tale inezia potesse tanto inquietarmi, è questione che ancora non ho saputo risolvere. È indubitato, comunque, che non appena egli se ne rese conto, praticò quella tortura con sistematica ostinazione. Io avevo sempre provata dell’avversione per il mio sciagurato nome di famiglia, tanto inelegante, come anche per il mio nome di battesimo ch’io consideravo del tutto ordinario, se non addirittura plebeo. Il suono delle sue sillabe era veleno al mio orecchio, e come il medesimo giorno del mio arrivo udii un altro William Wilson rispondere all’appello, non dubitai di volergli male per quella sola ragione, e fui doppiamente disgustato del mio nome, e perché era portato da un estraneo, e perché sarei stato obbligato a sentirlo pronunciare, in ogni occasione, una volta di più.

    L’irritazione che stimolò in me un tale avvenimento diveniva più viva man mano che le circostanze mettevano in luce, ogni giorno di più, la somiglianza fisica tra me e il mio rivale. A quell’epoca io non avevo ancora fatta la scoperta che eravamo nati lo stesso giorno, eppure non potevo fare a meno di vedere che avevamo la medesima statura, e che anche i nostri lineamenti erano contraddistinti da una totale sorprendente rassomiglianza. Ero inoltre esasperato dalle voci che correvano attorno alla nostra parentela e che erano credute nelle classi superiori. Non v’era nulla, in altre parole, ch’io non soffrissi – sebbene tentassi ogni maniera per non darlo a vedere – quanto le allusioni a una qualsiasi nostra somiglianza, così morale che fisica e, soprattutto, a causa della nascita. E tuttavia non avevo alcuna ragione di ritenere che tale rassomiglianza – tranne che per la parentela e per tutto ciò che riusciva a notare il medesimo Wilson – fosse stata mai l’oggetto di commenti e d’osservazioni dei nostri condiscepoli. Che lui studiasse quella relazione sotto ogni aspetto di essa, e che non vi mettesse meno attenzione di me, era del tutto indubitabile, ma che egli poi avesse saputo discoprire, in essa, un’occasione per i numerosi e perfidi dispetti che architettava, non ho da attribuirlo a nulla che non fosse la sua straordinaria sagacia.

    Egli era uso, coi gesti e con le parole, mediante un eccezionale potere d’imitazione, a contraffare ogni mio modo d’agire. Copiò così la foggia dei miei abiti, la mia andatura, il mio generale portamento e, nonostante la difficoltà di quella sua minorazione costituzionale, persino la voce. È chiaro, tuttavia, che, quanto alla voce, egli non tentava i toni elevati ma ne aveva afferrato, comunque, quale che fosse, il segreto e, a patto di parlar basso, egli riusciva ad ottenere che il suo bisbiglio fosse l’eco perfetto della mia voce.

    Quale alto grado di tormentosa angoscia non provocasse in me questo ritratto singolare ch’egli mi era uso porgere – e che io non potrei chiamare, onestamente, una caricatura – non arrivo a esprimere. Non avevo che una consolazione soltanto: e cioè che quella contraffazione, per quanto almeno mi riuscì di sapere, ero io soltanto ad avvertirla, per modo che non ne dovevo sopportare nulla all’infuori dei misteriosi sorrisi del mio omonimo, i quali non erano mai disgiunti da alcun sarcasmo. Pago d’aver prodotto l’effetto da lui voluto sul mio cuore, egli pareva soddisfatto di gioire segretamente della tortura medesima che m’infliggeva e sdegnava gli applausi che pure il successo per la sua bravura gli avrebbe procurato. Perché mai i nostri condiscepoli non indovinassero i suoi piani e non ne osservassero l’esecuzione, come pure non dividessero, assieme a lui, il piacere di quella turlupinatura, io non riuscii mai a discoprire, nonostante quel lunghi mesi d’inquietudine. È probabile che rendesse problematica l’osservazione dei suoi modi, l’estrema e graduale lentezza onde egli era uso portare innanzi la sua contraffazione. Ovvero io ero debitore della mia salvezza soltanto all’abilità del copista, il quale scartava ciò che suol dirsi la lettera – e questa è, pure, tutto ciò che le menti ottuse san riconoscere – badando a rendere solo lo spirito dell’originale, combinando assieme, così, la mia smisurata ammirazione e il mio cocente dispetto?

    Ho già ripetutamente accennato all’aria – tanto fastidiosa per me – di protezione che egli aveva assunta nel miei riguardi, come pure al suo frequente e ufficioso interferire coi miei propositi. Tale interferenza assumeva sovente lo sgradito carattere d’un ammonimento, il quale, seppur non era apertamente dichiarato, nondimeno era sottilmente suggerito, perfidamente insinuato. Ed io dovevo ridurmi ad accoglierlo con una ripugnanza la quale si faceva sempre più gremita col proceder del tempo. E tuttavia, ora che quell’epoca è del tutto trascorsa, desidero rendergli la doverosa giustizia di riconoscere che non m’è possibile rammentare soltanto un caso in cui quei suoi ammonimenti si rivelassero partecipi dell’errore e della stravaganza che pure sarebbe stata del tutto giustificabile alla sua età, immatura, per solito, ed inesperta; e ancora che il suo senso morale, come la sua avvedutezza e il suo talento erano molto più esercitati dei miei e, infine, che io sarei adesso un uomo assai migliore, e per conseguenza più felice, ove meno avessi sdegnati i suggerimenti di quel suo mormorio così pieno di significato, che pure allora m’ispirava un odio tanto tenace, un tanto amaro dispregio.

    Così ch’io, col tempo, divenni del tutto insofferente della sua ostinata e odiosa sorveglianza, e cominciai a detestare apertamente ciò che consideravo un’insoffribile soperchieria. Ho detto che durante i primi tempi della nostra vita in comune, i miei sentimenti a suo riguardo avrebbero potuto anche volgere in amicizia; ma negli ultimi mesi del mio soggiorno nella scuola, sebbene il fastidio di quella sua persecuzione fosse – e non dico poco – diminuito, i miei sentimenti, per contro, avevan preso, quasi con la stessa progressione, l’avvio ad un odio aperto e pronto a incrudelire. Ho la presunzione, infatti, ch’egli dovette accorgersene, in una certa circostanza, e ne è la riprova il suo venir meno alle assiduità della mia persona o, se non altro, l’atteggiarvisi.

    Attorno a quel tempo, se la memoria mi soccorre, durante un violento alterco nel quale egli sembrò smarrire il suo abituale ritegno con parole ed atti contrari alla sua natura, io discoprii – ovvero mi parve – nel suo accento, nella sua espressione, in tutto l’insieme, insomma, della sua fisionomia, un qualche cosa che, dapprima, mi fece trasalire e m’affascinò poi fin nel profondo, col risveglio, nell’animo mio, d’alcune oscure visioni della mia prima infanzia, rimasugli strani e scomposti di memorie andate, al tempo in cui io non ero neppur nato al pensiero e alle persistenti immagini di esso. Non saprei definire quella sensazione in maniera più acconcia se non col dire che m’era difficile liberarmi dall’idea d’aver già conosciuto quegli che m’era dinanzi in un’epoca remotissima, in un passato estremamente lontano e nebuloso. E nondimeno quell’impressione svanì colla rapidità medesima con la quale la mia mente eccitata l’aveva prodotta, ed io qui la ricordo solamente per sottolineare quale fu il carattere dell’ultima disputa che ebbi, per allora, col mio singolarissimo omonimo.

    L’antica e vasta costruzione della scuola comprendeva, nelle sue innumerevoli suddivisioni, una infinità di enormi camere comunicanti tra loro, le quali servivano da dormitori alla maggior parte degli allievi. V’erano poi – e non potevan mancare, infatti, in una costruzione così bizzarramente immaginata – angoli e cantucci in gran numero, ritagliati in vario modo, a seconda che il fabbricato suggeriva, e che l’utilitaria ingegnosità del reverendo Bransby aveva trasformati, ancor essi, in altrettanti dormitori, i quali – è evidente – da semplici sgabuzzini che erano, potevano servire, al massimo, a un solo individuo. Wilson occupava uno di cotesti stambugi.

    Una notte, allo spirar dell’ultimo anno ch’io trascorsi alla scuola, immediatamente dopo l’alterco che ho già detto, mentre tutti erano immersi nel sonno, mi levai dal mio giaciglio e, con un lume in mano, attraverso un intrico d’angusti passaggi, scivolai fino allo stambugio del mio rivale. Avevo a lungo preparato, contro di lui, un altro di quei tiri maligni nei quali, fino a quel momento, avevo sempre e completamente fallito. Deciso com’ero a porre quella volta il mio piano in atto, intendevo che egli provasse tutta la forza della malvagità che mi traboccava nell’animo. Giunto che fui nel suo stanzino, lasciai il lume sulla soglia, e stornando la luce con una ventola, entrai senza fare il minimo rumore. Avanzai un passo e udii ch’egli respirava tranquillo. Ben persuaso, in tal modo, che fosse addormentato pienamente e profondamente, tornai alla porta, presi su il mio lume e, con esso nella mano, mi avvicinai di nuovo al letto. Le cortine eran chiuse; ed io le discostai lievemente per effettuare il mio piano: ma cadendo il vivo lume, in pieno, sul dormiente, i miei occhi furori portati, un istante, a soffermarsi sulla sua fisionomia. Lo guardai e mi sentii, nel contempo, agghiacciare in tutto l’essere mio. Mi sussultò il cuore, mi vacillarono le ginocchia e un insoffribile e inspiegabile orrore mi possedette l’animo all’istante. Respirando appena, in un convulso tremore, accostai ancor più il lume al suo volto. Erano quelli, erano proprio quelli i lineamenti di William Wilson? Vedevo, sì, ch’erano i suoi, eppure mi lasciavo assalire da un brivido di febbre, immaginando ch’essi non lo erano. Che cosa, in essi, aveva il potere di farmi confondere a tal segno? Non potevo distogliermi dal contemplarlo ed il mio cervello roteava in preda al delirio di mille pensieri in contrasto. Non era così, ah, no! Certamente non era così ch’egli m’appariva nelle ore normali, quando era desto. Lo stesso nome, la stessa figura, lo stesso giorno d’entrata a scuola! E ancora l’inspiegabile dispetto della contraffazione della mia andatura, della mia voce, delle mie abitudini! Rientrava nelle possibilità umane che quel ch’io vedevo, ora, fosse pure soltanto il risultato di quel suo continuo esercizio, dell’ironia crudele della sua imitazione? Al colmo del terrore, rabbrividendo, soffiai sul mio lume, uscii in silenzio dalla cameruccia e abbandonai, una volta per sempre, il recinto della vecchia scuola.

    Dopo un lasso di tempo – qualche mese – che spesi, in ozio assoluto, nella casa di mio padre fui mandato a Eton. Tale breve intermezzo era stato sufficiente per annebbiare e quasi disperdere il ricordo degli avvenimenti dell’istituto del dottor Bransby, o almeno a mutare la natura dei sentimenti che quei ricordi mi risvegliavano. La realtà, e, cioè, la parte viva del dramma, non esisteva più, così ch’io credevo perfino di porre in dubbio la testimonianza dei miei sensi. E molto spesso, al ripensar quegli accidenti, meravigliavo del segno cui sa pervenire l’umana credulità e irridevo meco la prodigiosa fantasia della quale, a mezzo d’una trasmissione ereditaria, mi trovavo dotato dai miei genitori. La vita che io conducevo a Eton era tale da confortarmi in questa sorta di scettica professione. Il turbine di sregolate follie al quale, senza por tempo in mezzo, m’abbandonai allora, ebbe il potere di sommergere tutto, all’infuori d’un qualche superficiale ricordo di ciò ch’erano stati i mesi trascorsi e portò via seco ogni radicata impressione, senza permettere che la memoria serbasse null’altro, all’infuori delle più trasparenti immagini d’una bizzarra fanciullezza.

    Non ho alcuna intenzione di segnare, in questo luogo, il corso delle mie sciagurate dissolutezze, il quale sfidava ogni norma costituita, ed eludeva altresì ogni vigilanza. Tre anni di folli sregolatezze, spesi senza verun profitto, erano stati causa che il vizio piantasse profonde radici nell’animo mio, ed assieme che il mio sviluppo fisico fosse accresciuto in modo tutt’affatto anormale: un giorno, dopo una settimana di abbrutimento, spesa nell’esercizio delle più ributtanti infamie, convitai meco, nel mio appartamento privato, alcuni tra gli studenti più perversi, a far baldoria. Ci trovammo assieme a tarda sera, dacché la gozzoviglia avrebbe dovuto protrarsi con iscrupolo fino al mattino. Il vino corse a fiumi e non mancarono, com’è naturale, altre e più pericolose fonti di dolce ebrezza, così che, quando furono annunciati i primi deboli chiarori dell’alba, noi avevamo appena toccato il vertice del nostro stravagante delirio. Incendiato come ero dall’alcool e dalla demoniaca febbre del giuoco, mi accanivo a ricominciare un brindisi della più volgare insolenza, allorché la mia attenzione fu distratta dallo spalancarsi improvviso d’una porta e dalle precipitate parole d’un servo: egli mi disse che un personaggio, il quale dava a vedere d’essere divorato dalla fretta, chiedeva di potermi parlare nell’atrio.

    Al colmo del delirio alcoolico, quella interruzione inaspettata, lungi dal meravigliarmi, mi arrecò quasi un senso di sollievo, e raggiunsi così, di passo incerto, il vestibolo. In quella bassa stanzetta non v’era altro lume che quello medesimo dell’alba veniente, il quale pioveva stento, attraverso agli oscuri vetri d’una finestra ad arco. Al momento di porre il piede sulla soglia, intravvidi la figura d’un giovane che sembrava della mia stessa statura e portava una veste da camera di cachemire bianco, tagliata secondo la moda più recente, in tutto identica a quella che, in quello stesso istante, avevo indosso lo. A quel fioco lume, non mi fu possibile distinguere la fisionomia del giovane, anche perché questi, non appena entrai, mi si fece all’improvviso da presso e afferrandomi un braccio in un gesto d’impazienza, bisbigliò, al mio orecchio, le due parole: William Wilson.

    La mia ubriachezza fu dispersa in quell’attimo.

     

    V’era qualcosa, nel comportamento dello straniero, in quel suo vibrare il dito levato davanti ai miei occhi contro la luce, che mi paralizzò di meraviglia. E nondimeno non poté esser ciò – quel qualcosa, dico – a sconvolgermi l’animo: l’esuberanza, bensì, dell’ammonimento solenne che era in quel nome pronunciato da una voce bassa e come fischiante e, sopra ogni altra cosa, il tono, il carattere, il senso di quelle sillabe, affatto familiari e nondimeno mormorate come da un magico potere, le quali risvegliarono un nugolo di memorie sopite, e mi penetrarono come d’un brivido elettrico. Non mi ero ancora rimesso da quella scossa che il mio visitatore era già scomparso.

    Quantunque vivo e operante, l’effetto che un tale avvenimento produsse su di me ebbe, nondimeno, breve durata. Durante alcune settimane – è vero – m’avvenne di andare attorno a far ricerche, come pure di restare a lungo assorto in profonda riflessione. Non che cercassi di nascondermi l’identità del misterioso personaggio che mestava con tanta irriducibile caparbietà nei miei piaceri privati e m’infastidiva coi suoi ammonimenti! Ma chi era, infine, codesto Wilson? Di dove veniva? E che cosa voleva? Non seppi dare alcuna risposta a queste domande: seppi soltanto che, per un improvviso accidente occorso alla sua famiglia, egli era stato costretto ad abbandonare la scuola del dottor Bransby poche ore dopo che io stesso ne ero fuggito. Ciò nondimeno, di lì a qualche tempo, tutta quella storia fini con l’uscirmi affatto di mente e non mi occupai più che della mia partenza per Oxford – del resto già da tempo disposta – dove, ben equipaggiato com’ero dalle stolte e vanagloriose prodigalità dei miei, potei menare non appena arrivato, la frivola esistenza che tanto amavo, e rivaleggiare nelle spese, e soprattutto negli sprechi, coi più ricchi eredi delle più cospicue contee d’Inghilterra.

    Incoraggiato, così, il vizio, mi dedicai affatto e con sfrenato e rinnovato ardore, alle mie naturali inclinazioni e, pazzamente infatuato, infransi, nelle mie orge, i più elementari obblighi della decenza. Indugiare sui particolari della mia stravagante licenza sarebbe assurdo. Basti sapere che superai lo stesso Erode per la dissolutezza, e che, prestando il mio nome a innumeri nuove scellerataggini, m’avvenne d’arricchire non poco il catalogo dei vizi che erano allora di moda nella più dissoluta delle università europee.

    Si stenterà a credere che mi fossi abbassato al segno da tentare di familiarizzarmi coi più infami artifici della professione del giocatore, da farmi seguace di quella equivoca scienza e dal praticarla infine, abitudinariamente, come un mezzo per accrescere le mie rendite – già di per se stesse enormi – alle spese dei miei colleghi meno astuti. E fu così invece. L’enormità medesima d’un siffatto attentato ai danni dei miei stessi sentimenti di onore e dignità costituì, senza dubbio, la prima se non la sola ragione della mia impunità. Quale dei miei perversi camerati non avrebbe rifiutato di prestar fede anche alla più lampante testimonianza, piuttosto che sospettare di scorrettezza il gioviale, il leale, il generoso William Wilson, il più nobile e prodigo studente di Oxford, del quale le pazzie, secondo la voce messa in giro dai suoi stessi parassiti, non provenivano da altro se non da una giovinezza e da un’immaginazione sfrenate? Del quale gli errori altro non erano se non inimitabili capricci e i più sordidi vizi non potevano che implicare una sregolata, accesa, appassionante bizzarria?

    Menavo una vita di tal sorta, da due anni ormai, allorché giunse all’Università un giovane parvenu, un Glendinning, straricco, si mormorava, come Erode Attico, e come questi pervenuto alla ricchezza senza fatica alcuna. Non misi molto ad accorgermi che la sua intelligenza era torpida e ottusa e, tamburo battente, lo destinai ad essere vittima del mio industre talento. Presi, così, a invitarlo al giuoco e, com’è costume d’un giuocatore che sappia il mestiere, a lasciare ch’egli vincesse delle considerevoli somme per meglio irretirlo. Maturato che ebbi, di poi, il mio piano, mi disposi a coglierne il frutto nell’alloggio d’un nostro comune amico, il signor Preston, il quale – per la verità – non nutriva il minimo sospetto su quelli che erano, realmente, i miei intendimenti. Perché la mia vincita riuscisse più clamorosa, avevo provveduto a far convitare meco altre otto o dieci persone, e che la comparsa delle carte avvenisse in maniera tutt’affatto incidentale, e solo dopo che la vittima stessa l’avesse sollecitata. Non trascurai, insomma, per dirla in breve, alcuna delle astute abbiezioni che si praticano in consimili circostanze e che sono ormai talmente di prammatica da far considerare, per lo meno, molto strano che si trovi sempre della gente pronta ad abboccare.

     

    La nostra riunione s’era prolungata fino a notte alta e ad un dato momento procurai che il Glendinning fosse il mio unico avversario. il giuoco era quello da me preferito: l’écartè. Gli altri, attirati dalle inusitate proporzioni che aveva assunto la nostra posta, s’erano distratti dalle loro partite ed eran venuti a sedersi tutti attorno a noi. Il parvenu, ch’io avevo indotto, fin dall’inizio della serata, ad alzare, come suol dirsi, il gomito, s’era lasciato dominare, a quel punto del giuoco, da un tale nervosismo che nessuna ubriachezza, al certo, avrebbe giustificato. In un lasso di tempo estremamente breve egli m’era divenuto debitore d’una somma ingentissima. Ed al momento che avevo freddamente preveduto, dopo aver tracannato d’un sol sorso, alla barbara, un bicchiere colmo di porto, propose di raddoppiare quella già altissima posta. Io simulai di resistergli, e fu soltanto dopo che il mio ostinato rifiuto lo fece trasmodare a parole quasi ingiuriose – tanto ch’io potevo ben darmi le arie di persona piccata – che accettai quella sua folle proposta. Il risultato fu quale, appunto, avrebbe dovuto essere e fu chiaro, cioè, che la vittima era totalmente irretita.

    Non era passata per intero un’ora che egli mi doveva una somma quattro volte maggiore. Il suo volto aveva perduto già da qualche tempo la cera fiorente che il vino gli aveva prestata, ma solo in quel punto mi accorsi con grande meraviglia che era sbiancato come per un pallore di morte. E ciò, come ho detto, non fu senza meraviglia dal momento che le accurate indagini da me condotte in precedenza m’avevano appreso come la ricchezza del Glendinning fosse talmente vasta che le somme perdute fino a quel momento, per quanto ingenti potessero essere, non avrebbero dovuto sconvolgerlo né tanto meno deprimerlo a quel modo. Credetti, così, che fosse il vino bevuto. Più per salvarmi, come suol dirsi, la reputazione di fronte ai miei compagni, che per alcun altro interessato motivo, io m’apprestavo, intanto, ad insistere in modo più deciso perché il gioco fosse interrotto, allorché alcune parole, dette al mio fianco tra i presenti e un grido di disperazione sfuggito al Glendinning mi resero noto come io avessi operata la sua totale rovina, e lo avessi ridotto a tanto da essere, per tutti, oggetto di stupita pietà, a tanto che nemmeno il demonio in persona avrebbe ormai potuto più nulla contro di lui.

    A quale linea di condotta potei pensare allora d’attenermi è difficile dire. Lo stato, comunque, veramente pietoso In cui sembrava ridotta la vittima aveva suscitato, oltre l’imbarazzo, una sorta di melanconico disagio. Il più assoluto silenzio regnò, per alcuni minuti, durante i quali gli sguardi, a metà sdegnati e inquisitori per l’altra metà, che mi venivano dai meno corrotti della compagnia, mi fecero bruciare il rossore sulle guance. Mi sembrò, così, di provare, dapprima, come un senso di liberazione per lo straordinario avvenimento che si diede, improvviso, di lì a poco, a interrompere quell’insoffribile situazione. I battenti della porta, infatti, s’apersero con tale improvvisa violenza che tutte le candele intorno si spensero come se vi alitasse sopra un soffio incantato. Io avevo fatto in tempo, però, ad avvedermi che nella stanza s’era introdotto uno sconosciuto – un individuo che aveva, a un di presso, la mia stessa statura – il quale appariva strettamente avvolto in un mantello. L’oscurità era, per l’intanto, completa ed a noi era concesso soltanto sentire che egli era là, in mezzo a noi. E prima che potessimo riaverci dalla profonda meraviglia in cui ci aveva piombati quella brutale intrusione, si levò la voce dello sconosciuto.

    «Signori», egli disse con un leggero ma ben chiaro e indimenticabile mormorio che mi punse il midollo delle ossa; «io non farò le mie scuse per la strana condotta che sono costretto a tenere, dal momento che, portandomi in questo modo, non mi attengo che a uno stretto dovere. Voi non conoscete, al certo, la vera natura della persona che ha vinto, stanotte, un’enorme somma di danaro a Lord Glendinning. Vi propongo, quindi, un modo sicuro e sbrigativo d’apprendere la verità su di lui. Abbiate la bontà di esaminare, se v’aggrada, il risvolto della sua manica sinistra, come pure le tasche, capaci, della sua trapunta vestaglia».

    Mentre egli parlava, il silenzio della stanza era così profondo che si sarebbe udito cadere uno spillo sul tappeto. E com’egli ebbe terminato di parlare, scomparve nella stessa improvvisa maniera con la quale era venuto. In qual modo potrei, ora, descrivere i miei sentimenti di quell’istante? Occorre forse ch’io dica come mi sentii posseduto dai terrori dei dannati? Non ebbi, a ogni modo, alcun tempo per riflettere. Mille mani mi furono addosso nel mentre che i lumi venivano riaccesi. Mi perquisirono. E se nel risvolto della mia manica sinistra si trovarono tutte le principali figure dell’écarté, nelle tasche della mia vestaglia furori rinvenuti numerosi mazzi di carte simili a quelli di cui ci servivamo nelle nostre accolte, salvo che le mie eran di quelle dette arrotondate, secondo che il linguaggio del mestiere definisce una leggera convessione alle estremità degli onori, e ai lati delle altre carte, per cui la vittima, alzando come è l’uso, nella lunghezza del mazzo, era costretta a dare un onore all’avversario, nel mentre che costui, il quale alzava in larghezza, aveva modo di non dare mai alla vittima una carta che gli riuscisse di svantaggio.

    Un uragano di sdegno sarebbe stato preferibile al profondo silenzio pieno di significato che seguì quella scoperta.

    «Signor Wilson», disse l’ospite mio, nel mentre che si chinava per terra a raccattare un meraviglioso mantello foderato di pelliccia che, per il freddo, m’ero messo sulle spalle uscendo di casa e m’ero tolto non appena raggiunto il teatro del giuoco. «Signor Wilson: questa è roba vostra. Mi sembra superfluo», soggiunse con un amaro sorriso, esaminando le pieghe del mantello, «mi sembra superfluo ricercare, anche qui, nuove prove della vostra industria. Ne abbiamo avute a sufficienza, per la verità. Così che spero comprendiate la necessità di abbandonare Oxford e, in ogni caso, di uscire subito da casa mia!».

     

    Avvilito come ero, e umiliato dalla mia bassezza medesima, avrei avuto la forza, tuttavia, di reagire a quegli insulti con qualche atteggiamento, magari, di violenza, ove la mia attenzione non fosse stata attratta, in quel punto, da un avvenimento eccezionale. Il mantello col quale ero entrato in casa del mio ospite era, secondo ho già rilevato, guarnito e foderato d’una pelliccia rara e preziosa, e tagliato secondo un modello di mia invenzione, dacché in tali frivolezze ero di contentatura difficile e quant’altri mai eccentrico. Nel mentre, dunque, Preston mi porse il mantello che aveva raccolto sulla soglia della stanza, mi sentii gelare per la meraviglia – per non dire dalla paura – nell’accorgermi ch’io avevo già il mio, sul braccio, e che l’altro che m’era porto era, di quello, solo una contraffazione, esattissima nei minimi particolari. Il singolare individuo dal quale ero stato, per mala ventura, smascherato, aveva, secondo ricordavo perfettamente, anch’egli un mantello e, tra gli astanti, io solo ero venuto a giocare con un simile indumento. Come dovevo comportarmi? Cercai di serbare, al massimo, un contegno disinvolto, tolsi in braccio anche il mantello che mi porgeva l’ospite, lo sovrapposi al mio senza farne avveduto alcuno, ed uscii da quel luogo, fulminando in giro un’occhiata di sfida. Era appena l’alba ed io ero già in fuga da Oxford, diretto al continente, in preda a un’agonia d’orrore e di vergogna.

     

    Era invano, però, ch’io fuggivo. Il mio destino di sventura ebbe a perseguitarmi, vittorioso, dando a vedere che in quella tragica notte aveva soltanto cominciato a esercitare su di me il suo misterioso dominio. Non ero ancor giunto a Parigi che già Wilson mi forniva nuove prove del malefico interesse ch’egli aveva preso alla mia sorte. E il tempo passò tuttavia, ed il mio nemico non mi die’ tregua. Miserabile! Con quale inopportuna premura e con qual garbo nulladimeno sinistro non ebbe a intromettersi, tra me e il mio orgoglio, a Roma! E a Vienna! A Berlino! A Mosca! In qual luogo mai non colsi un qualche amaro motivo per maledirlo dal profondo di tutto l’essere mio? Io fuggivo, preda del terrore, innanzi alla sua imperscrutabile tirannide come se, a inseguirmi, fosse un’epidemia pestilenziale. In capo al mondo fuggii ma fu sempre invano.

     

    E ancora, chiedevo al segreto dell’animo mio: Chi è? Donde viene? Che vuole? E non avevo risposta. E studiavo le forme, i metodi, i caratteristici tratti della sua arrogante sorveglianza, e nulla potevo trovare che potesse, anche di lontano, schiuderne il mistero. Noterò, inoltre, che in ognuna delle innumeri volte in cui m’attraversò la strada, egli mirò a sconvolgere i miei piani e mutar corso alle mie operazioni, le quali, ove fossero state condotte a buon punto, m’avrebbero pur procurato, sempre, un amaro disinganno. E nondimeno, qual meschina giustificazione non era questa per usurpare quella sua autorità in maniera tanto insolente? Qual gramo compenso per il mio naturale diritto a eleggere la mia volontà, offeso così accanitamente e ingiuriosamente?

     

    Avevo notato, fin dai nostri primi incontri, che egli, pur nella sua scrupolosa e miracolosa destrezza nell’imitare la mia foggia di vestire, ogni volta che veniva a porre un ostacolo alla mia libera volontà, aveva sempre evitato ch’io lo guardassi in volto. Chiunque egli fosse, toccava, in codesto volersi trincerare nel mistero, il colmo dell’affettazione e della stupidità. Maledetto! Poteva egli illudersi che in colui che m’aveva ammonito ad Eton, che aveva distrutto l’onor mio a Oxford, che aveva avversata la mia ambizione a Roma, la mia vendetta a Parigi, la mia passione a Napoli e ciò, infine, ch’egli a torto definì cupidigia in Egitto, poteva egli illudersi che nel mio capitale nemico e malefico genio, io non avessi ravvisato il William Wilson dei miei anni di scuola? Il mio omonimo? Il mio esecrato rivale al convitto del dottor Bransby? Sarebbe stato assurdo. E veniamo, nondimeno, all’ultima scena del dramma.

     

    Avevo, sempre, sino allora, subito passivamente d’essergli soggetto. Il profondo rispetto col quale mi ero abituato a venerare il suo nobile carattere, la maestà del suo sapere, la sua onnipotenza e apparente onnipresenza, in una sorta di paura che m’ispiravano taluni tratti della sua indole, m’avevano persuaso d’esser debole e del tutto indifeso dinanzi a lui e, insieme, m’avevan consigliata una totale sottomissione – per quanta amarezza e disgusto potesse costarmi – alla sua arbitraria dittatura. Negli ultimi mesi mi ero consacrato all’alcool con una assoluta dedizione, con l’effetto ch’io ero reso ogni giorno più insofferente di qualsiasi controllo. Cominciai così, a mormorare, ad esitare, a resistere, infine. Fu forse una follia credere che l’ostinazione di colui che s’era eletto a mio carnefice sarebbe stata attenuata dalla mia fermezza? È probabile che fosse così. E nondimeno io mi sentii, poco alla volta, animato da una nuova speranza e cominciai a nutrir fede, in segreto, che sarei riuscito a liberarmi da quella schiavitù.

     

    Nel carnevale del 18… ero a Roma. Una sera mi recai a un ballo in maschera che aveva luogo nel palazzo del napoletano Duca di Broglio. Essendomi abbandonato, più del consueto, ai piaceri dell’alcool, l’atmosfera soffocante delle sale da ballo, gremite d’una folla variopinta, mi esasperò fino al punto d’essere incapace di sopportarla oltre. Anche la difficoltà d’aprirmi una via tra la calca irritava vieppiù il mio umore. Giacché ansiosamente ricercavo – e ne tacerò l’indegno motivo – la giovane, allegra e bella sposa del vecchio e stravagante Duca di Broglio. Ella m’aveva rivelato – dando prova d’eccessiva leggerezza, a dire il vero – il segreto della mascheratura che avrebbe indossata per quella sera, così che, non appena l’ebbi vista da lungi, già ismaniavo di raggiungerla. Ed ecco una mano posarsi lievemente sulla mia spalla, ed ecco il dannato mormorio – potrò mai dimenticarlo? – penetrare sommesso alle mie orecchie.

     

    Mi volsi, posseduto da un impeto di furia ed afferrai violentemente colui pel suo bavero. Egli aveva indosso, come, del resto, m’attendevo, un costume del tutto identico al mio: un costume spagnuolo in velluto azzurro, con una cintura cremisina stretta attorno alla vita, da cui pendeva una spada. E sul viso una maschera di seta nera.

    «Ribaldo!», esclamai con voce arrochita dallo sdegno, che era vieppiù aumentato da ogni sillaba che mi lasciavo sfuggire. «Impostore! Dannato furfante! Quando finirai di seguirmi come un cane? Vien fuori, ch’io ti passi da parte a parte, sul luogo!». E, trascinandomelo dietro, traversai la sala delle danze e lo condussi in un gabinetto attiguo.

     

     

    Entrando, gli diedi una forte spinta, accecato com’ero dall’ira, ed egli andò a battere contro il muro nello stesso momento in cui, mentre chiudevo, con una bestemmia, la porta, gli comandavo di mettersi in guardia. Sembrò che esitasse. Ma fu l’impressione d’un attimo. Emise un leggero sospiro, trasse la spada fuor della guaina e obbedì all’ingiunzione.

    Il duello fu assai breve, per la verità. Sovreccitato com’ero per la sfrenata esasperazione dell’animo mio, serbavo nel braccio il vigore e la potenza di tutt’intera una folla. Lo ridussi contro una parete, in pochi minuti e, una volta a mia discrezione, lo trafissi ripetutamente, nel petto, con ferocia.

    In quello stesso istante, qualcuno, di fuori, tentò d’aprire la porta. Per impedire un’invasione, io m’accanii con furia crescente sul mio nemico, per finirlo. E quali parole, tuttavia, potrebbero rappresentar la meraviglia e la paura che in quel punto s’impadronirono di me? L’istante in cui m’ero volto a guardare istintivamente verso la porta, era stato sufficiente perché, nella stanza, si producesse un cotale mutamento nella disposizione dei mobili. Dove un momento innanzi non v’era se non il legno della parete, vedevo, ora, un gigantesco specchio. E come io avanzavo in preda al terrore verso di esso, vedevo venirmi innanzi la mia immagine, pallida nel volto, lorda di sangue, ed il suo incedere era fiacco e malfermo.

     

    Così mi parve che fosse, ma così non era. Era Wilson, era il mio nemico che mi stava ritto davanti, mentre agonizzava. Egli aveva buttato il suo mantello ed ecco, io vidi che non v’era un solo filo nella trama del suo abito, non un sol tratto dei suoi lineamenti tanto caratteristici e originali che non fosse, nel modo più assoluto, mio!

    Egli era Wilson. Ma le sue parole non giunsero più al mio orecchio filtrate dal suo agghiacciante mormorio e mentr’egli parlava, io avrei giurato di sentir parlare me stesso.

    «Tu hai vinto», egli disse, «ed io cedo. Ma anche tu, fin da questo istante, sei morto … morto al Mondo, al Cielo, alla Speranza. Tu esistevi in me … ed ora… ora che sono morto, guarda in questa mia spoglia, che è la tua, guarda come hai definitivamente assassinato te stesso».

    Fine

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