• Basaglismo, ovvero la leggenda di Franco Basaglia “martire” della psichiatria

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    Come abbiamo più volte scritto su questo blog (leggi qui) il basaglismo ha infestato per decenni la cultura italiana con un pensiero che in realtà, come scrive lo psichiatra e psicoterapeuta Gianfranco De Simone, non è mai esistito in quanto «non c’è quel presupposto scientifico che deve guidare ogni agire terapeutico».

    Confondere la cura della malattia mentale con il “prendersi cristianamente cura” , come scrive l’autore di questo articolo «può essere veleno per una mente che ha la speranza di poter essere guarita».

    L’articolo, che in un certo senso mette fine all’agiografia di un Basaglia, creatore della legge 180 e gran rivoluzionario incompreso della psichiatria, è stato pubblicato il 17 dicembre 2013 sulle pagine de L’Unità digitalizzato a cura della nostra redazione e messo a disposizione dei lettori per una maggior divulgazione.

    G.C.Z.

     

    Manicomio.-Fonte-immagine-osservatorior

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    La ragione dell’irrazionale

    Lettura critica delle lezioni di Rovatti su Basaglia

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    di Gianfranco De Simone

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    Malattia e follia – Lo psichiatra discute l’interpretazione del disagio psichiatrico e dice: ai pazienti vanno restituiti dignità e diritti. Soprattutto quello di essere curati

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     «Quando c’erano i matti» titolava Repubblica del 30 novembre aderendo alla lettura che, nell’articolo, Pier Aldo Rovatti dava del pensiero di Franco Basaglia secondo il quale il malato mentale era una costruzione storica nata insieme alla costruzione dei manicomi e della psichiatria che doveva gestirli.

    L’articolo è un capitolo del suo nuovo libro che nel titolo Restituire la soggettività (Edizioni Alpha Beta Verlag), sceglie una frase di Basaglia che era al centro del suo impegno teorico e pratico.

    La rilettura dei testi basagliani fatta del corso di filosofia teorica era motivata dalla constatazione che il pensiero e le parole di Basaglia erano già stati archiviati come pensieri di un tempo lontano, al punto che – ammette Rovatti – nella stessa Trieste la maggior parte degli studenti non ne sapevano nulla. Ammette anche che Basaglia oggi è scomparso dalla cultura politica e dalla cultura psichiatrica e, si chiede e se c’è o non c’è un suo pensiero. L’intento del libro è di dare una risposta affermativa al quesito. ma il suo interesse culturale sta proprio, grazie anche alle testimonianze di figure storiche del progetto basagliano, nel dimostrare involontariamente proprio che tale pensiero non esiste.

     La legge 180

    La verità, per quanto paradossale, è che Basaglia viene ricordato nella storia per ciò che non ha fatto, cioè la legge 18o, a cui non ha dato alcun contributo  personale. Questo libro è una conferma che il basaglismo, imbevuto dei pensieri di Heidegger che stanno alla base delle idee di Binswanger e di Foucault, non è stato psichiatria.

    Non è psichiatria il nesso tra libertà e malattia mentale, non è psichiatria dire che «la follia è  una condizione esistenziale e che la malattia mentale non è un fatto, è una sanzione che deriva da un certo tipo di sapere e che comporta una serie di conseguenze, depauperanti la soggettività del sanzionato». Il gesto storico di aprire il manicomio sarebbe stato un restituire la soggettività agli interessati, riportare la follia, l’irrazionale matto in mezzo alla gente. Dopo aver realizzato la sua prassi in base all’idea che non è la malattia mentale che annienta la soggettività ma il manicomio, Basaglia, nel 1979, a chi gli chiedeva cos’è la soggettività, cos’è  la follia rispondeva: «Non so cos’è la follia, non so cos’è questa soggettività. che vogliamo restituire».

    Ma se dietro all’azione di Basaglia non c’è quel presupposto scientifico che deve guidare ogni agire terapeutico, cos’è che ha guidato la sua prassi? Secondo un basagliano convinto è stato «una fenomenologia spinta al suo punto radicale» (Colucci). Il folle ha questa sua soggettività che è libertà, per cui va lasciato libero nel mondo per realizzare liberamente il suo progetto esistenziale (che, in quanto folle, una volta rimesso fuori e senza cura, ha spesso significato suicidio).

    Il gesto politico di Basaglia è analogo, nel pensiero che lo sostiene, al gesto fenomenologico del suo maestro Binswanger che suggerisce al marito di Ellen West di lasciare libera la moglie di realizzare il suo destino con il veleno.

    Certo i manicomi andavano chiusi, ai malati andavano e vanno restituiti i loro diritti, la dignità, soddisfatti i bisogni. Ma il primo di un malato, anche di un malato di mente, era ed è il diritto d’essere curato.  La lotta antistituzionale avrebbe dovuto essere – per essere davvero autentica – solo la lotta per rivendicare, a favore di persone con alterazioni mentali,  il diritto di essere curate in uno spazio idoneo con una cura basata su una relazione terapeutica.  Uno spazio e un rapporto in cui affrontare, su base nuova, non organicista né custodialistica,   i problemi dei malati e la loro cura. Per fare questo ci si doveva occupare della mente e del rapporto interumano per arrivare a une teoria della mente sana e patologica, ad una teoria della cura insieme ad una formazione e una metodologia per portarla avanti.

    Un’altra psichiatria

    Ai tempi di Basaglia tutto questo non c’era. Ma oggi si è cominciato a costruire una nuova psichiatria che ha preso le mosse da un percorso iniziato da Massimo Fagioli nell’ospedale psichiatrico di Padova, accanto a Basaglia con il rifiuto del manicomio lager di Venezia e la ribellione alla psichiatria ufficiale. Il suo percorso non si limita a studiare  Binswanger: Fagioli va a lavorare da lui da chi cioè prometteva una nuova psichiatria, e nella prasi di  comunità terapeutica gestita dai pazienti ricava che la soggettività perduta andava ricercata nell’irrazionale, nel rapporto inconscio, nel lavoro sui sogni: quei sogni che Binswanger riteneva incomprensibili e la psicoanalisi di Freud feroce pazzia ed espressione di una natura incomprensibile. Così, rifiutando o mettendo tra parentesi queste teorie (epoché) Fagioli ha cercato nella lunga prassi di rapporto con i pazienti, il filo che potesse legare insieme psichiatria, psicoterapia e inconscio, per arrivare ad una possibilità di conoscenza di una realtà mentale umana. La psichiatria e la cultura, soprattutto di sinistra, devono fare i conti col fatto che è dalla prassi, senza ideologia, che si è arrivati a una teoria sulla realtà umana. Una teoria che è stata subito percepita come una possibilità per un nuovo pensiero della sinistra, tanto da richiamare migliaia di studenti, operai, intellettuali, donne e uomini delusi dal Pci e che non avevano realizzato nessuna soggettività con la liberta del ’68.

    Oggi sono in tanti a parlare di nuova soggettività e di identità collettiva sviluppata in un lavoro di grandi gruppi e sono in tanti a non voler vedere che le due cose non sono in contraddizione.

    La prassi di Basaglia non ha prodotto nessuna  teoria né ricerca perché non ha fatto quella epoché che tutti i suoi sostenitori, compreso Rovatti gli attribuiscono. La sua prassi aveva dietro il pensiero fenomenologico spinto fino al punto radicale. Anche Heidegger credeva che la soggettività, l’identità umana fosse nell’irrazionale e nel passare alla prassi diventò nazista.

    Rovatti quarant’anni dopo Basaglia continua a sostenere che «l’apertura del manicomio è una restituzione della follia a se stessa». Rovatti è un libero pensatore, ma quando questo pensiero viene messo alla base della prassi psichiatrica, ecco che si arriva alle posizioni di Dell’Acqua, direttore del Dsm di Trieste, per il quale nemmeno nel caso di Breivik, autore del massacro in Norvegia di 77 persone, si può parlare di malattia mentale.

    La nuova soggettivita sta nel corpo umano che crea il proprio pensiero perché reagisce al rapporto con  la realtà non umana, con la capacità di immaginare che crea l’irrazionale che non è pazzia e che la sinistra laica deve avere l’intelligenza e il coraggio di accogliere, per fondarsi su un nuovo soggetto che non è quello scisso, per natura, tra coscienza e non coscienza, tra ragione che deve controllare la non ragione, anche alleandosi alla religione. Parlare di follia e non di malattia mentale significa continuare legittimare chi sostiene che nella natura umana esistono il peccato originale e l’inconscio perverso inconoscibile.

     

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    Quali bisogni


     Per concludere, Rovatti ci tiene a dire che Basaglia ha preso la nozione di lotta di classe da Marx, applicandola agli internati, «caratterizzati dalla miseria». Fare l’analogia tra i bisogni dei lavoratori nella fabbrica e gli internati,  entrambi oppressi dalla miseria rischia di rimettere insieme poveri, diseredati, malati di mente. Così, invece di andare oltre i manicomi, si rischia di tornare all’assistenza cristiana che si occupava insieme di vagabondi, diseredati e dei malati di mente solo in quanto poveri. Dopo Marx il riscatto degli ultimi non può passare dalla carità cristiana. C’è un difetto di intelligenza e di affettività verso i propri simili nel continuare ad assistere religiosamente gli alienati come poveri ed esclusi, vestendoli, dandogli un alloggio, portandoli in giro la domenica in quanto considerati diversi che resteranno diversi per volontà di Dio o per natura umana e follia esistenziale.

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    La miseria del proletariato era per Marx una forza di cambiamento, non una realtà da assistere caritatevolmente. Se pensiamo inoltre che la miseria del paziente psichiatrico non è solo fatta di mancati bisogni, ma di vuoto mentale, miseria affettiva, di relazioni ecc., si può capire perché togliendoli dal manicomio sola per dargli una casa famiglia, sia solo un gesto caritatevole. E l’elemosina cristiana può essere veleno per una mente che ha la speranza di poter essere guarita.

    17 dicembre 2013

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