• Cesare Pavese – Le cavalle – da I dialoghi con Leucò

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    Leggi QUI – La mitopoiesi  di Pavese – Introduzione al testo di Gian Carlo Zanon

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    «Sempre, ma più che mai questa volta, ritrovarmi davanti e in mezzo alle mie colline mi commuove nel profondo. Devo pensare che immagini primordiali, come dire l’albero, la casa , la vite, il pane, la frutta ecc. mi si sono dischiuse in questi luoghi, anzi in questo luogo (…) e rivedere perciò questi alberi, case, viti, sentieri, ecc. mi dà un senso di straordinaria potenza fantastica. Come se mi nascesse ora, dentro, l’immagine assoluta di queste cose (…) Insomma ci vuole un mito. Ci vogliono i miti, universali fantastici, per esprimere fino in fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo».

     

    Lettera di Pavese, scritta il 27 giugno del 1942 da Santo Stefano Balbo, alla scrittrice Fernanda Pivano.

     

    Le cavalle                       

     

    Di Ermete, dio ambiguo tra la vita e la morte, tra il sesso e lo spirito, fra i Titani e gli dei dell’Olimpo, non è il caso di parlare. Ma che cosa significhi che il buon medico Asclepio esca da un mondo di divine metamorfosi bestiali, vale invece la pena di dirlo.

     

    Parlano Ermete ctonio e il centauro Chirone

     

    Ermete – Il Dio ti chiede di allevare questo figlio, Chirone.  Già sai della morte della bella Corònide. L’ha strappato il Dio dalle fiamme e dal grembo di lei con le mani immortali. Io fui chiamato presso il triste corpo umano che già ardeva – i capelli avvampavamo come paglia di grano. Ma l’ombra nemmeno mi attese. Con un salto, dal rogo scomparve nell’Ade.

    Chirone – Tornò puledra nel trapasso?

    Ermete – Così credo. Ma le fiamme e le vostre criniere si somigliano troppo. Non feci in tempo a sincerarmene.  Dovetti afferrare il bambino per portarlo quassù.

    Chirone –  Bimbetto, era meglio se restavi nel fuoco. Tu non hai nulla di tua madre se non la triste forma umana. Tu sei figliolo di una luce abbacinante ma crudele, e dovrai vivere in un mondo di ombra esangue e angosciosa, di carne corrotta, di sospiti e di febbri – tutto ti viene dal Radioso. La stessa luce che ti ha fatto frugherà il mondo, implacabile, e dappertutto ti mostrerà la tristezza, la piaga, la viltà delle cose. Su di te veglieranno i serpenti.

    Ermete – Certo il mondo di ieri è scaduto se anche i serpenti son passati alla Luce. Ma, dimmi, tu sai perché è morta?

    Chirone – Enodio, mai più la vedremo balzare felice dal Dìdimo al Pelio fra i canneti e le rupi. Tanto ci basti. Le parole sono sangue.

    Ermete – Chirone, puoi credermi quando ti dico che la piango come voi la piangete. Ma, ti giuro, non so perché il Dio l’abbia uccisa. Nella mia Làrissa si parla d’incontri bestiali nelle grotte e nei boschi …

    Chirone – Che vuol dite? Lo siamo bestiali. E proprio tu, Enodio, che a Làrissa eri coglia di toro, e all’inizio dei tempi ti sei congiunto nel fango della palude con tutto quanto di sanguigno e ancora informe c’era al mondo, proprio tu ti stupisci?

     

    Statue_of_AsclepioErmete – È lontano quel tempo, Chirone, e adesso vivo sottoterra o sui crocicchi. Vi vedo a volte venir giù dalla montagna come macigni e saltare le pozze e le  forre, e inseguirvi, chiamarvi, giocare. Capisco gli zoccoli, la vostra natura, ma non sempre-voi siete così. Le tue braccia e il tuo petto di uomo, a dirne una, e il vostro grosso riso umano, e lei l’uccisa, e gli amori col Dio, le compagne che adesso la piangono – siete cose diverse. Anche tua madre, se non sbaglio, piacque a un dio.

    Chirone – Altri tempi davvero. Fu il vecchio dio per amarla si fece stallone. Sulla vetta del monte,

    Ermete – Dunque, dimmi perché Corònide bella fu invece una donna e passeggiava nei vigneti e tanto giocò col Radioso che lui la uccise e bruciò il corpo?

    Chirone – Enodio, dalla tua Làrissa quante volte hai veduto dopo una notte di vento la montagna dell’Olimpo stagliare nel cielo?

    Ermete – Non solo la vedo, ma a volte ci salgo.

    Chirone – Un tempo, anche noi si galoppava fin lassù di costa in costa.

    Ermete – Ebbene, dovreste tornarci.

    Chirone –  Amico, Corònide c’è tornata.

    Ermete –  Che vuoi dire con questo?

    Chirone –. Voglio dire che quella è la morte. Là ci sono i padroni. Non più padroni come Crono il vecchio, o l’antico suo padre o noi stessi nei giorni che ci accadeva di pensarci e la nostra allegria non sapeva più confini e balzavamo come cose che eravamo. A quel tempo la bestia e il pantano eran terra d’incontro di uomini e dei. La montagna il cavallo la pianta la nube il torrente – tutto eravamo sotto il sole. Chi poteva morire a quel tempo? Che cos’era bestiale se la bestia era in noi come il dio?

     

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    Ermete – Tu hai figliole, Chirone, e sono donne e son puledre a volontà. Perché ti lamenti? Qui avete il monte, avete il piano, e le stagioni. Non vi mancano neppure, per compiacervi, le dimore umane, capanne e villaggi,  agli sbocchi delle vallate, e le stalle i focolari, dove i tristi mortali favoleggiano di voi pronti ad ospitarvi. Non ti pare che il  mondo sia meglio tenuto dai nuovi padroni?

    Chirone – Tu sei dei loro e li difendi. Tu che un giorno eri coglia e furore, ora conduci le ombre esangui sottoterra. Cosa sono i mortali se non ombre anzitempo? Ma godo a pensare che la madre di questo bimbetto c’è saltata da sola: se non altro ha trovato se stessa morendo.

    Ermete –  Ora so perché è morta, lei che se ne andò alle pendici del monte e fu donna e amò il Dio col suo amore tanto che ne ebbe questo figlio. Tu dici che il Dio fu spietato. Ma puoi dire che lei, Corònide, abbia lasciato dietro a sé nel pantano la voglia bestiale, l’informe furore sanguigno che l’aveva generata?

    Chirone – Certo che no. E con questo?

    Ermete – Gli dei nuovi di Tessaglia che molto sorridono, soltanto di una cosa non possono ridere: credi a me che ho veduto il destino. Ogni volta che il caos trabocca alla luce, alla loro luce, devon trafiggere e distruggere e rifare. Per questo Corònide è morta.

    Chirone – Ma non potranno più rifarla. Dunque avevo ragione che l’Olimpo è la morte.

    Ermete – Eppure, il Radioso l’amava. L’avrebbe pianta se non fosse stato un dio. Le ha strappato il bimbetto. Te l’affida con gioia. Sa che tu solo potrai farne un uomo vero.

    Chirone –  Ti ho già detto la sorte che attende costui nelle case mortali. Sarà Asclepio, il signore dei corpi, un uomo-dio. Vivrà tra la carne corrotta e i sospiri. A lui guarderanno gli uomini per sfuggire il destino, per ritardare di una notte, di un istante, l’agonia. Passerà questo bimbetto tra la vita e la morte, come tu ch’eri  coglia di toro e non sei più che il guidatore delle ombre. Questa la sorte che gli Olimpici faranno ai vivi, sulla terra.

    Ermete –  E non sarà meglio, ai mortali, finire così, che non l’antica dannazione d’incappare nella bestia o nell’albero, e diventare bue che mugge, serpente che striscia, sasso eterno, fontana che piange.

    Chirone – Fin che l’Olimpo sarà il cielo, certo. Ma queste cose passeranno.

     

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