• Il genio non è un pazzo; il pazzo non è un genio

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    Camille Claudel

    «Non c’è nesso causale tra follia e creatività»

    «Non è la tendenza a sviluppare una patologia mentale che rende creativa una persona». Su Babylon Post, l’autorevole intervento chiarificatore della psichiatra Annelore Homberg.

    Federico Tulli

    Equivoco millenario? Falso ideologico? Errore storico? Da circa 25 secoli la cultura occidentale rilancia un’idea che in principio fu di Aristotele, convinto assertore del legame inscindibile tra follia e genialità, del fatto che la malattia mentale sia il motore della creatività umana. «Per quale ragione – scrive ne Il Problema XXX, testo a lui attribuito – gli uomini eccezionali, in filosofia, politica, poesia o arte, sono manifestamente malinconici e alcuni al punto da essere considerati matti a causa degli umori biliari?». Il riferimento di uno dei padri della filosofia greca è a Ippocrate che pochi decenni prima aveva distinto nel corpo umano la presenza di quattro umori: il sangue, il flegma, la bile gialla e la bile nera o melankolia, ipotizzando che la salute dipenderebbe quindi dal corretto equilibrio di questi elementi e la malattia dalla mancanza o dall’eccesso di uno di essi. Quando prevale la bile nera, deflagra la malinconia. Più di duemila anni dopo, con la nascita e lo sviluppo della moderna medicina e della psichiatria, il termine “malinconia” fu sostituito con “depressione”. Nonostante l’evoluzione di tecniche e teorie, la convinzione che per essere creativi bisogna aver sviluppato una patologia mentale è invece rimasta solidamente immutata. Insinuandosi nella cultura “popolare”. Ma si tratta di un’opinione fondata? C’è chi dice, con fermezza, di no. «La creatività è una realtà psichica, la malattia mentale è tutt’altro. E tra l’una e l’altra non c’è alcun nesso causale nel senso che non è la tendenza a sviluppare una patologia mentale che rende creativa una persona» spiega a Babylon Post Annelore Homberg, psichiatra e docente di Psicologia generale all’Università di Chieti nonché autrice di pubblicazioni su questo argomento.

     

    La psichiatra Annelore Homberg.

    L’occasione per approfondire e fare chiarezza sul presunto legame fra malattia mentale e creatività è fornita dai risultati di uno studio del prestigioso Karolinska Institutet di Stoccolma, che è durato 40 anni e ha coinvolto 1,2 milioni di pazienti psichiatrici insieme ai loro parenti, fino ai cugini di secondo grado. Secondo i parametri presi in considerazione dagli autori della ricerca, pubblicata sul Journal of Psychiatric Research, il suddetto legame sarebbe stato evidenziato specie negli scrittori e nei pittori. Si tratta dello studio più esteso mai condotto su questo tema e arriverebbe a confermare non solo ciò che sosteneva Aristotele nel IV secolo avanti Cristo, quanto pure la teoria di uno psichiatra tra i meno accreditati della storia, quale fu Cesare Lombroso. «Col più grande degli scrittori viventi si completa la prova della psicosi epilettoide del genio» scrisse l’autore di Genio e follia dopo un incontro con Lev Tolstoj.

     

    Professoressa Homberg, come stanno le cose? «Si, è vero che una persona che ha scoperto cose importanti sulla realtà umana o che ha cambiato, con la sua sensibilità artistica, la visione del mondo, corre poi più di altri determinati rischi di scompenso pichico. Sottolineo il “poi”: ritengo che tali rischi psichici non siano la causa della creatività ma vadano lette come reazione ad essa. Per motivi interni all’innovatore stesso ma anche esterni, è molto difficile reggere ciò che si è riusciti a fare, ad esempio le proprie scoperte quando toccano cose umane profonde. Ci vuole una struttura di personalità solida fino all’inconscio che purtroppo non tutti hanno. Ma è comunque pensabile, e accade pure, che anche un innovatore geniale possa rimanere mentalmente stabile». Secondo Simon Kyaga, il ricercatore che ha elaborato le conclusioni dello studio, la creatività è invece addirittura una forma di pazzia: «In psichiatria e in medicina in generale – dice – si è abituati a considerare una patologia in termini di bianco o nero. Se imparassimo a riconoscere che alcuni aspetti della malattia mentale possono essere benefici, potremmo escogitare nuove tecniche per trattarla». Qual è la sua risposta a un’affermazione del genere? «Inventare nuovi metodi di cura – non tecniche – va sempre bene e va sempre bene se la psichiatria non vede i malati psichici come degli handicappati su base genetica ma come persone da rispettare che per certi versi sono dei ribelli alla norma tragicamente falliti. Per il resto la frase è inaccettabile e anche pericolosa. Che alcuni aspetti della malattia mentale possano essere benefici è una falsità. Sì, esiste la cosiddetta art brut: un tempo quando c’erano i manicomi, una percentuale minima delle persone ricoverate si metteva spontaneamente a dipingere o scolpire o a scrivere, facendo cose a volte sorprendentemente originali e non riconducibili alle norme estetiche (spesso modeste) che erano state loro impresse».

    Qual è la spiegazione in chiave psichiatrica? «Si potrebbe pensare che nelle psicosi gravi saltano tutti quei conformismi dovuti a processi di identificazione con l’ambiente e la persona precipita per cosi dire in qualcosa che psichicamente viene prima dell’identificazione. Da questo punto di vista, la cosiddetta arte psicopatologica non sarebbe propriamente espressione della pazzia quanto costituisce forse un’attivazione di dimensioni primordiali ancora sane per contrastare la catastrofe interna “pensandola” e raccontandola con una certa originalità delle immagini. Peraltro, molte opere dell’art brut sono affascinanti ma quasi nessuno degli autori evidenzia quella costanza della ricerca nella variabilità delle espressioni che caratterizza, a mio avviso, un percorso artistico vero e proprio. Più che una ricerca che l’artista intuitivamente porta avanti, sembrano impellenti operazioni di difesa che spesso sono anche assai ripetitive».

    Come riportano gli psichiatri Paola Bisconti e Francesco Fargnoli in uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Il sogno della farfalla, fu nella Germania nazista che prese particolarmente piede la tesi oggi “confermata” dallo studio del Karolinska Institut: «Numerosi artisti come Ernst, Klee, Kubin – osservano Bisconti e Fargnoli nel saggio intitolato Psichiatria e arte – rimasero stupiti e affascinati di fronte alle opere di alienati (ospiti della clinica di Heidelberg, ndr), tanto da riconoscerli come loro pari, ma tutto ciò permise ai nazisti tedeschi di denunciare le opere degli espressionisti come prodotti degenerati di menti disturbate. Tra il 1935 e il 1937 – prosegue l’articolo – dopo che la clinica di Heidelberg era passata sotto la direzione di Carl Schneider, sostenitore del programma di eliminazione sistematica dei pazienti ritenuti inguaribili promosso da Hitler, la collezione venne messa a disposizione della mostra “Entartete Kunst”, dove le opere di Paul Klee, Oscar Kokoschka, Eugen Hoffmann comparivano accanto a quelle dei malati e venivano bollate come arte degenerata».

    Giova ricordare che questa “idea” nazista non nasceva dal nulla essendo in sintonia con quanto la scienza psichiatrica in parte stava sostenendo da tempo sul rapporto tra artisti, “pazzi”, “primitivi” e bambini. Nemmeno la psicoanalisi di Sigmund Freud si discosta di molto da questa impostazione quando dichiara che il prodotto creativo nascerebbe «dalla sublimazione di pulsioni perverse». Sarebbe quindi solo la capacità alla sublimazione a tracciare una labile linea di confine tra artista e nevrotico. Mantenendo un approccio superficiale, queste tesi storiche troverebbero ora conferme nella ricerca svedese, avendo questa rilevato che gli scrittori e i pittori oltre ad avere il 50 per cento di probabilità in più della media di suicidarsi, soffrono più degli altri di schizofrenia e depressione.

    Va solo poco meglio agli scienziati e altri artisti in genere i quali però – sempre secondo gli scienziati svedesi – provengono da un ambiente familiare nel quale più che altrove sono sviluppate schizofrenie. La professoressa Homberg ritiene che a monte di indagini di questo tipo ci sia un grave problema di metodo oltre che teorico, pertanto le chiediamo: a quali pericoli può andare incontro una persona che ha fatto scoperte originali o che ha creato un nuovo linguaggio artistico? «Ci sono tanti elementi da considerare» spiega. «Per esempio più una scoperta o una nuova realtà artistica è basata sulla mera sensibilità che non si traduce in conoscenza vera, più la persona rischia di pagarne le conseguenze dal punto di vista psichico. Come se in seguito alla realizzazione si creasse tanta più confusione quanto più l’opera nasce da una sensibilità che rimane senza parole. Di contro – precisa Homberg – più l’intuizione riesce a tramutarsi in conoscenza verbalizzata, meno le persone rischiano. Ma è assai improbabile che un pittore o un poeta finiscano per sapere esattamente cosa hanno toccato della realtà umana, soprattutto quando si tratta di realtà preverbali e sconosciute. E qui è doveroso menzionare le considerazioni che il collega Massimo Fagioli di recente ha proposto sul tema quando indaga su due pittori fondamentali del Novecento, Rothko e Pollock, entrambi finiti malissimo perché, sostiene Fagioli, avevano toccato in maniera diversa e senza saperlo, le dinamiche all’inizio della vita psichica».

    In pratica, più l’artista, lo scienziato, lo scrittore è stato innovativo e più deve fare i conti con il resto della propria personalità per reggere il peso della realizzazione creativa. «Quando una persona ha una forte creatività e propone qualcosa di rivoluzionario rispetto all’ordine costituito», precisa la Homberg, «bisognerebbe poi andare a vedere quanto la sua personalità complessiva sia immune da dimensioni di non-essere: da identificazioni o da vuoti, più o meno estesi. Sono dimensioni che possono farlo sentire in colpa per essersi spinto tanto avanti oppure che possono renderlo fragile di fronte alla reazione degli altri». Bisogna insomma considerare anche la sua rete di rapporti personali e affettivi e il contesto in cui si muove. «La reazione nei confronti del “genio” raramente è amichevole» osserva la psichiatra. «La risposta sia nell’ambito personale che in ambito pubblico può essere la più svariata: va dalla accettazione gioiosa fino all’attacco frontale. Oppure può accadere una dinamica che forse è la più deleteria». Vale a dire? «La reazione peggiore, quella più violenta, consiste nel non prendere atto della scoperta o dell’innovazione artistica, comportandosi cioè come se la cosa non esistesse. Per reggere un annullamento di questo tipo occorre che la personalità sia particolarmente compatta e sicura di sé. Se invece ci sono elementi di vuoto, è qui che si possono infilare vissuti depressivi mostruosi o può iniziare addirittura quella catastrofe interna che Hölderlin racconta in una delle ultime poesie con la frase semplice e agghiacciante: Ich bin nichts mehr (Non sono più nulla)». Quanto più è elaborata la scoperta oppure profondo il salto di paradigma artistico o scientifico, tanto più l’identità del protagonista deve essere strutturata. «Esattamente e intendo una strutturazione profonda, non cosciente, non imparata. A mio avviso – conclude Homberg – per non giungere a conclusioni errate andrebbe prima studiato e valutato tutto questo. Al limite andando a osservare anche gli scienziati, gli artisti e gli innovatori che non sono andati in malattia mentale».

    Federico Tulli

    articolo intercettato su Segnalazioni blog spot

    mercoledì 21 novembre 2012

     

    • Ciò che spesso unisce i geni è la ricorsività. Il moltiplicarsi dell’immagine di un oggetto posto tra due specchi piani paralleli è una tipica situazione ricorsiva. Effetto ottico che i geni, in vari modi, ricreano nelle loro opere. Situazione propizia dal punto di vista intellettuale ma pericolosa dal punto di vista psicologico. La ricorsività è legata all’intelligenza, e si ritrova nelle sue manifestazioni, ma anche in quelle della pazzia lieve, non nella schizofrenia, che può però avere come concausa i doppi legami di Bateson, che un qualche legame con la ricorsività c’è l’hanno. Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti ebbero un’intelligenza simile e come una stanza degli specchi simile fu anche il loro volto nella maturità. . Cfr. Ebook (amazon) di Ravecca Massimo. “Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo” . Grazie.

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