• “La questione morale”: etica e politica

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    Non è certamente un caso se il libro di Roberta De Monticelli, La questione morale (Raffaello Cortina Editore) è divenuto un best seller nazionale, toccando le quarantamila copie vendute. È il segnale, non l’unico, che molti italiani, finalmente, hanno iniziato ad interrogarsi sul significato e sul senso profondo di termini come ‘morale’ ed ‘etica’.

     

    In un vecchio articolo di Repubblica del marzo 2011, Nadia Fusini scriveva che l’autrice del libro vorrebbe che il lettore «… a partire dalla sua propria vita si faccia filosofo, amante cioè della conoscenza». E non possiamo essere che d’accordo con questa affermazione purché si parli di filosofia nel senso etimologico – amore per la sapienza –  e non della maggior parte dei sistemi filosofici che si sono succeduti finora né tantomeno dei filosofi glorificati nei libri di storia della filosofia.

     

     

    Il filosofo Cacciari con Don Verzé

     

    Questo perché, tanto per fare un esempio, l’opera di Platone, Politéia – titolo tradotto, orribilmente,  in La Repubblica – che racchiude i suoi pensieri di ‘teoria politica’, è divenuta il paradigma per i vari totalitarismi del Novecento.

    La De Monticelli non è l’unica a scrivere di morale. Il suo libro è soltanto un altro sintomo del malessere civile degli scrittori che  cercano una propria ‘cura’ pubblicando libri che parlano di questo ‘dolore’, esistenziale sociale e politico, che sta divenendo giorno dopo giorno più lancinante: Etica oggi di Michela Marzano, Etica minima di Pier Luigi Rovatti, Indignatevi di Stéphane Hessel, sono la cartina tornasole di una ricerca in cui gli intellettuali europei cercano di sviluppare una dialettica culturale attorno a temi ormai divenuti incandescenti, come la democrazia liberale e il nuovo colonialismo camuffato da globalizzazione.

    nell’immagine Berlusconi bacia la mano anche a Don Verzé

     

    Poi c’è il meraviglioso libro di Mario Vegetti, recentemente ristampato, L’etica degli antichi che racconta il farsi dell’etica: dalle passioni calde degli eroi omerici, sempre ad un passo dalla hýbris, alla gelida razionalità platonica e aristotelica costruite per legittimare la politica degli oligarchi e dello status quo.

    Ci prova anche Vito Mancuso a fare un discorso sulla morale nel suo ultimo libro Vita autentica, ma già il nome della collana nella quale è stato inserito, Libera ricerca spirituale, ci fa intravedere eteree divinità pronte a ristampare leggi mosaiche, rivedute e corrette dal  teologo, da distribuire a fine messa delle undici.

     

    Don Verzè con Formigoni

     

    E non dimentichiamoci che di autenticità parlava anche Heidegger creatore del pensiero nazista. Vedi questo nostro articolo.

    Non è certamente quella di Mancuso – il quale, “udite, udite” ha scoperto, ora, la menzogna millenaria del peccato originale – la strada per conoscere il senso della morale e della sorella maggiore: l’etica. Etica e Religione non sono mai andate d’accordo, vedi millesettecento anni di storia criminale del cristianesimo.

     

    Si deve necessariamente iniziare dalle origini della filosofia per capire meglio il senso dell’etica. Partiamo dal più criptico dei presocratici, Eraclito il filosofo naturalista, conosciuto dal volgo per il suo motto “panta rei” tutto scorre.

    Il filosofo che veniva soprannominato skoteinòs, (l’oscuro), per il suo linguaggio criptico, ci parla da 2600 anni attraverso i suoi frammenti. Uno dei più intraducibili e discussi è il centodiciannovesimo: il frammento, poeticamente, evoca il senso profondo dell’etica: “èthos ántròpo daímon”. Questa epigrafe è stata come dicevo tradotta in vari modi; una traduzione canonica è questa: “indole dell’uomo è demone”. Poi ci sono quelli che vanno fuori di testa e riferendosi al nazista Heidegger traducono: “La dimora dell’uomo è il divino” .

     

    Alla seconda non badiamo, ma anche la prima traduzione  appare non solo filologicamente errata , ma anche alterata dalla credenza giudaico/cristiana sulla realtà umana, che sarebbe depravata, già dalla nascita, dal peccato originale, perché questa traduzione afferma che l’essere umano è naturalmente (per indole) un demonio.

     

    Prima della traduzione, di cui mi prendo la responsabilità, cerco di definire le tre parole: ‘èthos’ è un vocabolo che all’epoca di Eraclito stava a significare grosso modo l’etica, vale a dire le regole sociali di etnie o tribù che iniziavano allora a cercare forme di convivenza sociale nelle polis nascenti. Norme, tradizioni, abitudini, divenivano èthos , leggi tacite; qualche volta venivano trascritte, ma più spesso venivano veicolate dall’epica e dai miti cantati dagli aedi.

     

    Don Verzé col novello aedo Albano (suo grande ammiratore)

     

    La seconda parola  ántròpos sta per ‘essere umano’,  e non per uomo (àndros) come nella traduzione ufficiale.

     

    Daímon, nel tempo di Eraclito, non poteva essere inteso come demone, figura che poteva al più appartenere alle religioni del Vicino Oriente . Il daímon per Eraclito, era la realtà interna dell’uomo, il suo io individuale, il suo irrazionale, diremmo oggi, che lo ‘obbligava’, nel bene e nel male, a comportamenti personali ed individuali che mostravano il carattere dell’individuo. Il daímon era vissuto, come sottolineò anche Garcia Lorca nella sua conferenza a Cuba nel 1930 Il Duende – Teoria e gioco, come una caratteristica individuale; il daímon era a tutti gli effetti una realtà interiore che poteva palesarsi o rimanere celata, ma che in ogni caso dominava i pensieri e di conseguenza – in un periodo storico nel quale pensiero e atto erano fusi, e non scissi come avverrà poi nel sistema filosofico platonico/cristiano – anche le azioni. Fatte queste premesse proviamo noi a tradurre l’oscuro Eraclito: “La realtà interiore (daímon) è legge (èthos) per l’essere umano (ántròpo)”.

     

    Don Verzè con Vendola

     

    Tutto questo è molto importate per un motivo semplice: la responsabilità individuale. In quel periodo storico, lo spiega molto bene Mario Vegetti, non era pensabile un’etica non condivisa in una polis composta da poche centinaia di individui. Le leggi dovevano venire interiorizzate dalla maggior parte dei cittadini divenendo patrimonio etico di ogni individuo, non solo nel pensiero cosciente ma anche nel ‘pensiero irrazionale’. L’éthos comune li responsabilizzava nella vita sociale.

     

    Don Verzè a braccetto con l’ex sindaco della polis milanese “l’ineguagliabile Moratti”

    L’individuo che non accettava le regole sociali, interiorizzandole, non poteva appartenere di fatto a quella comunità. In quel periodo storico, non essendoci ancora la scissione tra corpo e psiche, poi codificata e legittimata dalla filosofia platonica, la fisiognomica del volto avrebbe svelato i pensieri dissociati dal comportamento ‘civile’.

    Quindi non si poteva accettare formalmente l’etica comune e poi non rispettarla: era un delitto punibile o con la morte o con l’esilio perpetuo. Esilio che significava, per colui che essendo cacciato dalla comunità diveniva un apolide, la morte civile e una vita da cane randagio.

    Nei nostri giorni in cui la ‘morale’ dei governanti, che dovrebbe essere un’etica alla quale aspirare, è caduta nell’immoralità più cancrenosa, dobbiamo obbligatoriamente indignarci ed assumere una reazione etica, che si deve tradurre in responsabilità non solo delle azioni ma anche dei pensieri.

     

    Riconquistare la fusione tra pensiero ed azione significa aprire gli occhi per scoprire che gli ‘aristocratici’ non sono quegli imbecilli che vanno a ballare davanti a platee di idioti, ma sono nell’antica accezione, gli aristòs, i migliori tra i cittadini. E quindi sono i medici, gli scienziati, i ricercatori che studiano come salvare la vita a persone di cui non vedranno mai il volto. Ma sono anche gli artisti, gli scrittori, i giornalisti, che sanno valicare i confini della normalità e sanno intravedere, mostrare e rappresentare con il loro lavoro ciò che i più non riescono a decifrare né a comprendere da soli.

     

    Queste persone, i migliori tra noi, esistono, basta aprire gli occhi e guardare al di là della cataratta dell’irresponsabilità che non sa e non vuole giudicare e distinguere chi – distrutto internamente –  vuole trascinare con sé il  mondo intero corrompendo a destra e a manca, da chi fa in modo che la propria realizzazione umana divenga anche una possibilità e un pungolo per la realizzazione degli altri esseri umani, sconosciuti.

     

    Tornare a vivere l’etica interna, salvata nei marosi dei rapporti interumani, spesso deludenti ma ineludibili, è prendere in mano la propria vita, umana, intera, senza scissione tra pensiero ed atto, e portarla a continue realizzazioni che non escludano l’altro uguale e diverso da sé.

     

    Tornare a vivere l’etica interna significa fidarsi del proprio ‘sentire’ e non permettere a coloro che parlano di peccati originari, che vengono ‘curati’ da riti sacri e dalla Grazia divina, di ipnotizzarci. Prendere in mano la propria responsabilità verso l’altro da sé significa  non credere supinamente a intellettualoidi freudiani che parlano a vanvera di homo homini lupus e di un male connaturato nell’uomo e tenuto a freno dal super-io della ragione.

     

    Finché una moltitudine di individui crederà religiosamente  a questa cultura violenta che cerca di snaturare la percezione della realtà umana, Etica e Morale saranno solo il vestito buono dell’idea utilitaristica che ci fa fare le cose perché sono utili, e quando sarà utile buttare a mare gli extracomunitari lo faremo … perché l’utile sarà sinonimo di etico.

     

     

    La questione morale, solo evocata nel libro di Roberta De Monticelli, è una questione di sopravvivenza dell’umano, e del suo sapersi esprimere e mostrarsi nella società civile, anche con il voto o, se necessario, anche con il non voto, anche con l’indignazione che riempie le piazze, anche e soprattutto con il rifiuto di ciò che, non essendo etico, è disumano … solo così l’ombra di Antigone sarà sempre presente sulle barricate.

    G. C. Z.

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