• Incipit leggendari – Julio Cortázar: Rayula , il gioco del mondo

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    1 Lilllian Bassman

     –Rayuela 

    I capitolo

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    “So che un giorno arrivai a Parigi, so che per un certo periodo vissi vite altrui, facendo quel che fanno gli altri e vedendo quel che gli altri vedono. So che uscivi da un caffè di rue du Cherche-Midi e che ci parlammo…”

    Avrei incontrato la Maga? Tante volte mi era bastato affacciarmi, arrivando da rue de Seine, all’arco che dà sul quai de Conti, e appena la luce di cenere e di olivo sospesa sul fiume mi lasciava distinguere le forme, subito la sua figurina sottile si disegnava sul Pont des Arts, qualche volta muovendosi da una parte all’altra, qualche altra ferma contro la ringhiera di ferro, china sull’acqua. Ed era così naturale attraversare la strada, salire i gradini del ponte, penetrare nella sua sottile vita ed avvicinarmi alla Maga, che sorrideva senza sorpresa, convinta quanto me che incontrarsi per caso non era un caso nelle nostre vite, e che la gente che si dà appuntamenti precisi è la medesima che ha bisogno del foglio a righe per scriversi o che preme dal basso il tubetto del dentifricio.

    Ma adesso lei non ci sarebbe stata, sul ponte. Il suo volto delicato dalla pelle quasi trasparente si affacciava forse ai vecchi portici del ghetto del Marais, forse stava chiacchierando con una venditrice di patate fritte o mangiando un salsicciotto caldo nel boulevard Sebastopol. Ad ogni modo salii sul ponte, e la Maga non c’era. Adesso la Maga non era neppure sulla mia strada, e per quanto conoscessimo i nostri indirizzi, ogni vuoto delle nostre due stanze di falsi studenti a Parigi, ogni cartolina come una finestrella Braque o Ghirlandaio o Max Ernst stretta fra le povere modanature e la tappezzeria chiassosa, nonostante questo non saremmo andati a cercarci in casa. Preferivamo incontrarci sul ponte, al tavolino di un caffè, in un cineforum o curvi su un gatto in un qualsiasi cortile del quartiere latino. Camminavamo senza cercarci pur sapendo che camminavamo per incontrarci. Oh, Maga, a ogni donna che ti somigliava s’addensava intorno un silenzio assordante, una pausa tagliente e cristallina che finiva per crollare tristemente, come un ombrello bagnato che si chiuda. Proprio un ombrello, Maga, forse ricorderai quel vecchio ombrello che sacrificammo in un fossato del Parc Montsouris, in un gelido tramonto di marzo. Lo gettammo via perché lo avevi trovato in place de la Concorde, già un po’ rotto, e lo usasti moltissimo, soprattutto per infilarlo nelle costole della gente sul metrò o sugli autobus, sempre goffa e distratta, sempre con la testa per aria o attenta al disegno che due mosche tracciavano sul tetto dell’auto, e quella sera cadde un acquazzone e tu volesti aprire orgogliosa il tuo ombrello quando entrammo nel parco, e nella tua mano scoppiò un cataclisma di freddi fulmini e nuvole nere, brandelli di stoffa lacerata cadevano fra lampi di stecche sgangherate, e ridevamo come matti mentre ci bagnavamo, pensando che un ombrello trovato in una piazza doveva morire degnamente in un parco, non poteva entrare nell’immondo ciclo del secchio della spazzatura o dello scolo di un marciapiede; allora io lo arrotolai meglio che potei, lo portammo nella parte alta del parco, vicino alla passerella sopra la ferrovia e di là lo lanciai con tutte le mie forze in fondo al fossato di erba bagnata mentre tu emettevi un grido nel quale credetti di riconoscere vagamente un’imprecazione di valchiria.

    E giù nel fosso affondò come vascello che soccomba all’acqua verde, all’acqua verde e procellosa, a la mer qui est plus félonesse en été qu’en hiver, all’onda perfida, Maga, secondo enumerazioni lungamente particolareggiate da noi innamorati di Joinville e del parco, abbracciati e simili ad alberi bagnati o ad attori di una qualsivoglia pessima pellicola ungherese. E restò fra l’erba, minimo e nero, come un insetto calpestato. E non si muoveva, nessuna delle sue molle scattava come prima. Finito. Basta. Oh Maga, e noi non eravamo contenti.

    Che cosa venivo a fare io sul Pont des Arts? Mi sembra che quel giovedì di dicembre avessi pensato di portarmi sulla riva destra e di bere del vino nel piccolo caffè della rue des Lombards dove Madame Léonie mi legge il palmo della mano e mi annuncia viaggi e sorprese. Non ti ho mai portata da Madame Léonie a farti leggere la mano, forse avevo paura che scorgesse nella tua mano qualche verità su di me, perché sei sempre stata un terribile specchio, una spaventosa macchina di ripetizioni, e ciò che chiamavamo amarci forse fu che io ero in piedi davanti a te, con un fiore giallo in mano, e tu reggevi due candele verdi e il tempo soffiava contro i nostri volti una lenta pioggia di rinunce e addii e biglietti di metrò. Per questo non ti ho mai portata da Madame Léonie, Maga; e so, tu me lo dicesti, che a te non piaceva che io ti vedessi entrare nella piccola libreria di rue de Verneuil, dove un vecchio affaticato fa migliaia di schede e sa tutto quel che si può sapere sulla storiografia. Andavi là per giocare con un gatto, e il vecchio ti lasciava entrare e non ti faceva domande, contento se qualche volta gli sporgevi uno dei libri degli scaffali più alti. E ti scaldavi alla sua stufa dal grande tubo nero e non ti piaceva che io sapessi che andavi a metterti accanto a quella stufa.

    Ma tutto ciò lo si sarebbe detto al momento giusto, solo che era difficile individuare con esattezza il momento di una cosa, e persino adesso, con i gomiti appoggiati al ponte, vedendo passare una barca color vinaccia, bellissima come uno scarafaggio lucente di pulizia, con una donna dal grembiule bianco che stende la biancheria su un filo a prua, guardando quei finestrini dipinti di verde con tendine alla Hansel e Gretel, persino adesso, Maga, mi stavo domandando se questo giro aveva un senso, dato che per arrivare alla rue des Lombards mi sarebbe convenuto di più attraversare il Pont Saint-Michel e il Pont au Change. Ma se fossi stata lì, quella sera, come tante altre volte, io avrei saputo che quel giro aveva un senso, mentre ora avvilivo il mio insuccesso chiamandolo giro. Si trattava, dopo aver alzato il collo della giacca a vento, di continuare lungo le banchine fino a entrare in quella zona dai grandi negozi che finisce allo Châtelet, passare sotto l’ombra violacea della torre di Saint-Jacques e risalire la mia strada pensando che non ti avevo incontrata e a Madame Léonie.

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    3

     So che un giorno arrivai a Parigi, so che per un certo periodo vissi vite altrui, facendo quel che fanno gli altri e vedendo quel che gli altri vedono. So che uscivi da un caffè di rue du Cherche-Midi e che ci parlammo. Quel pomeriggio tutto andò male, perché le mie abitudini argentine mi vietavano di passare continuamente da un marciapiede all’altro per guardare le cose più insignificanti nelle vetrine debolmente illuminate di non ricordo più quali strade. Ti seguivo, allora, di malavoglia, trovandoti petulante e maleducata, finché ti stancasti di non essere stanca e ci infilammo in un caffè di Boul’ Mich’ e all’improvviso, fra due croissants mi raccontasti gran parte della tua vita.

    Come potevo sospettare che ciò che sembrava una grossa bugia fosse vero, un Figari con viole del tramonto, con volti lividi, con fame e botte negli angoli. Più tardi ti credetti, più tardi ci fu la spiegazione, ci fu Madame Léonie che leggendo la mia mano che aveva dormito con i tuoi seni mi ripeté quasi le tue stesse parole. «Quella donna porta in sé una sofferenza. Ha sempre sofferto. È molto allegra, adora il giallo, il suo uccello è il merlo, la sua ora la notte, il suo ponte il Pont des Arts». (Una barca color vinaccia, Maga, ma perché non ci siamo saliti quando eravamo ancora in tempo).

    E bada che ci conoscevamo appena e già la vita ordiva quanto era necessario per farci allontanare minuziosamente. Siccome non sapevi fingere, mi accorsi subito che per vederti come volevo io era necessario cominciare col chiudere gli occhi, e allora, prima, cose come stelle gialle (che si muovevano in una gelatina di velluto) poi rossi salti dell’umore e delle ore, lento ingresso in un mondo-Maga che era fatto di goffaggine e confusione ma anche di felci con la firma del ragno Klee, del circo Mirò, degli specchi di cenere di Vieira da Silva, un mondo in cui ti muovevi come un cavallo degli scacchi che si muovesse come una torre che si muovesse come un alfiere. E allora in quei giorni andavamo ai cineforum a vedere film muti, perché io con la mia cultura, non è vero, e tu poverina non capivi assolutamente niente di quello stridore convulsamente giallo previo alla tua nascita, quell’emulsione striata su cui correvano i morti; ma all’improvviso ecco Harold Lloyd e allora ti scrollavi di dosso l’acqua del sonno e alla fine ti convincevi che era stato tutto bellissimo, e Pabst e Fritz Lang. M’infastidivi un pochino con la tua mania di perfezione, con le tue scarpe scalcagnate, con il tuo rifiuto di accettare l’accettabile. Mangiavamo hamburger nel carrefour de l’Odéon, e andavamo in bicicletta a Montparnasse, in un albergo qualsiasi, un guanciale qualsiasi. Altre volte, però, proseguivamo fino alla Porte d’Orléans, conoscevamo sempre meglio la zona di terreni incolti oltre il boulevard Jourdan, dove qualche volta a mezzanotte si riunivano quelli del Club del Serpente per parlare con un veggente cieco, paradosso stimolante.

    Lasciavamo le biciclette per strada e c’inoltravamo un pochino fermandoci a guardare il cielo perché quella è una delle poche zone di Parigi dove il cielo vale più della terra. Seduti su un mucchio di rifiuti ci mettevamo a fumare, e la Maga mi carezzava i capelli o canticchiava motivi neppure inventati, assurde melopee interrotte da sospiri o da ricordi. Io ne profittavo per pensare a cose inutili, metodo che avevo cominciato ad adottare anni addietro in un ospedale e che mi sembrava sempre più fecondo e necessario. Con grandissimo sforzo, riunendo immagini ausiliarie, pensando a odori o facce, riuscivo ad estrarre dal nulla un paio di scarpe marrone che avevo portato a Olavarrìa nel 1940. Avevano i tacchi di gomma, le suole molto sottili, e quando pioveva mi entrava l’acqua fin dentro l’anima. Con quel paio di scarpe nella mano del ricordo, il resto veniva da sé: la faccia della signora Manuela, per esempio, o il poeta Ernesto Morroni. Ma li respingevo perché il gioco consisteva nel recuperare soltanto ciò che era insignificante, non in mostra, consumato.

    Tremando per non essere capace di ricordare, aggredito dal tarlo che propone il rinvio, rimbecillito a forza di baciare il tempo, finivo col vedere accanto alle scarpe una lattina di Tè Sole che mia madre mi aveva dato a Buenos Aires. Il cucchiaino per il tè, cucchiaio-trappola dove quei sorcetti neri bruciavano vivi nella tazza d’acqua emettendo striduli gorgoglii. Convinto che il ricordo abbraccia tutto e non soltanto le Albertine e le grandi effemeridi del cuore e dei reni, mi ostinavo a ricostruire il contenuto del mio scrittoio a Floresta, la faccia di una ragazza impossibile da ricordare di nome Gekrepten, il numero dei pennini a spatola dentro l’astuccio di quinta elementare, e finivo per tremare talmente e disperarmi (perché mai ho potuto ricordarmi di quelle penne, so che stavano nell’astuccio, in una tasca speciale, ma non ricordo quante fossero e neppure posso precisare il momento esatto in cui dovettero essere due o sei), fin quando la Maga, baciandomi e lanciandomi in faccia il fumo della sigaretta e il suo alito caldo mi riportava alla realtà e ridevamo, riprendevamo a camminare fra i mucchi dei rifiuti, cercando quelli del Club.

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    A quel punto mi ero accorto che cercare era il mio destino, l’emblema di coloro che escono la notte senza alcuna precisa intenzione, lo scopo degli assassini di bussole. Con la Maga parlavamo di patafisica fino all’esaurimento, perché anche a lei capitava (e il nostro incontro consisteva in questo e in tante altre cose oscure come il fosforo) di cadere continuamente nelle eccezioni, di trovarsi fino al collo in caselle che non erano di tutti, e questo senza disprezzare nessuno, senza sentirci dei Maldoror in liquidazione o dei Melmoth privilegiatamente erranti. Non mi pare che la lucciola si attribuisca maggior importanza per il fatto incontrovertibile d’essere una delle meraviglie più spettacolari di questo circo, e tuttavia è sufficiente supporre in essa una coscienza per capire che ogni volta che le si accende il pancino l’insetto di luce deve sentire come un solletico di privilegio.

    Nello stesso modo la Maga amava tutti gli inverosimili guai in cui si trovava fino al collo per via del fallimento d’ogni legge nella sua vita. Era di quelle che fanno crollare i ponti quando li attraversano, o che si ricordano fra strilli e pianti di aver visto in una vetrina il biglietto della lotteria vincitore dei cinque milioni. Da parte mia, mi ero ormai abituato al fatto che mi capitassero cose modestamente eccezionali, e non trovavo troppo orribile che entrando in una stanza al buio per prendere un 33 giri, sentissi brulicare nel palmo della mano il corpo vivo d’un centopiedi gigante che aveva scelto di dormire sulla copertina del disco. Questo, e trovare dei pelacci grigi o verdi in un pacchetto di sigarette, o sentire il fischio di una locomotrice esattamente nel momento e con il tono necessario per incorporarsi ex officio in un passaggio di una sinfonia di Ludwig van, o entrare in una pissotière di rue de Médicis e vedere un uomo intento ad orinare diligentemente fino al momento in cui, allontanandosi dal suo settore, si girava verso di me e mi mostrava, sostenendolo con il palmo della mano, come un oggetto liturgico e prezioso, un membro di dimensioni e colori incredibili, e nello stesso attimo accorgermi che quell’uomo era esattamente uguale a un altro (anche se non era quell’altro) che ventiquattro ore prima, nella Salle de Géographie, aveva dissertato su totem e tabù, ed aveva mostrato al pubblico, sostenendoli bellamente sul palmo della mano, bacchette d’avorio, piume di uccelli del paradiso, monete rituali, fossili magici, stelle di mare, pesci disseccati, fotografie di concubine reali, offerte di cacciatori, enormi scarabei imbalsamati che facevano fremere di spaventata delizia le immancabili signore.

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    Insomma, non è facile parlare della Maga che a quest’ora sta certamente girando per Belleville o per Pantin, intenta a guardare per terra fin quando non abbia trovato qualcosa di rosso. Se non lo trova continuerà così per tutta la notte, frugherà nei secchi della spazzatura, gli occhi vitrei, convinta che qualcosa d’orrendo le capiterà se non troverà quel pegno del riscatto, indice di perdono o di rinvio. So cosa significa perché anch’io obbedisco a questi segni, ci sono volte in cui anch’io devo trovare uno straccetto rosso. Fin da bambino, appena mi cade per terra qualcosa devo tirarlo su, qualunque cosa sia, perché se non lo faccio capiterà una disgrazia, non a me ma a qualcuno cui voglio bene, e il cui nome comincia con l’iniziale dell’oggetto caduto. Il guaio è che niente può trattenermi quando qualcosa mi cade per terra, e non vale che sia un altro a raccoglierlo perché il maleficio agirebbe ugualmente. Per questa ragione sono passato molte volte per pazzo e la verità è che sono preso da follia quando agisco così, quando mi precipito a raccattare una matita o un pezzetto di carta che mi sia scivolato di mano, come la sera della zolletta di zucchero nel ristorante di rue Scribe, un ristorante elegante frequentato da dirigenti, da puttane con la volpe argentata e da coppie bene assortite. Eravamo con Ronald ed Etienne, e a me cadde una zolletta di zucchero che andò a finire sotto un tavolo abbastanza lontano dal nostro. La prima cosa che attirò la mia attenzione fu il modo con cui la zolletta si era allontanata, perché in generale le zollette di zucchero s’immobilizzano appena toccano terra per ragioni parallelepipede evidenti. Ma quella si comportava come se fosse stata una pallina di naftalina, cosa che aumentò la mia apprensione, e giunsi a credere che veramente me l’avessero strappata di mano. Ronald, che mi conosce, guardò verso il punto dove era andata a fermarsi la zolletta, e cominciò a ridere. Questo mi fece ancor più paura, insieme a rabbia.

    Un cameriere si avvicinò pensando che mi fosse caduto qualcosa di prezioso, una Parker o una dentiera, ottenendo solo d’infastidirmi, per cui, senza chiedere scusa, mi gettai a terra e cominciai a cercare la zolletta di zucchero fra le scarpe della gente che se ne stava con grande curiosità (e a ragione) credendo che si trattasse di qualcosa di importante. Al tavolo era seduta una cicciona con i capelli rossi, un’altra meno grassa ma altrettanto puttana, e due dirigenti o qualcosa di simile. Innanzi tutto mi resi conto che la zolletta era invisibile, e dire che l’avevo vista saltare fino a quelle scarpe (che si muovevano inquiete come galline). Per colmo di disgrazia c’era il tappeto, e sebbene facesse schifo tanto era usato, la zolletta era dovuta andare a nascondersi fra i peli, ma non riuscivo a trovarla. Il cameriere si distese dall’altra parte del tavolo, ed ormai eravamo due quadrupedi che si muovevano fra le scarpe-gallina che lassù cominciavano a starnazzare come pazze. Il cameriere continuava ad essere convinto della Parker o del Luigi d’oro, e quando eravamo ormai infilati sotto il tavolo, in una specie di grande intimità e penombra, e lui mi domandò e io risposi, fece una faccia che era da spruzzare con un fissatore, ma io non avevo nessuna voglia di ridere, la paura mi aveva chiuso a doppio giro la bocca dello stomaco e infine fui preso da una vera disperazione (il cameriere si era alzato furibondo) e cominciai ad afferrare le scarpe delle donne e a guardare se sotto l’arco della suola non si fosse acquattata la zolletta, e le galline starnazzavano, i galli dirigenti mi beccavano la schiena, sentivo le risate di Ronald e di Etienne mentre mi spostavo da un tavolo all’altro fin quando non ebbi trovato lo zucchero nascosto dietro una gamba Secondo Impero. E tutti quanti furibondi, persino io con lo zucchero stretto nel palmo della mano, sentendo in qual modo si mescolava al sudore della pelle, in qual modo, schifosamente, si scioglieva in una sorta di vendetta appiccicosa, questo genere di episodi tutti i giorni.

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