• Assenze presenti: l’esperienza del padre

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    L’esperienza del padre non lascia indenni. Ogni individuo ha ricordi di Lui fissati nelle fotografie della mente e memorie che non lasciano scampo. In assenza di Lui, nei luoghi della memoria il bello e il brutto sono categorie sostituite da giusto e ingiusto. Lì ci si arriva in vari modi. La poesia è uno di questi modi modi. È uno dei modi in cui il pensiero verbale si divincola dall’abbraccio mortale del linguaggio imparato per “mentire” e come corda d’arco o di lira si tende fino ai limiti estremi del proprio Io per evocare non ciò che fu, ma ciò che rimane.

     

    A mio padre

    Di fronte alle tue mani fredde tutto è passato in fretta come un treno che non ferma nelle piccole stazioni. Neanche il tempo di un saluto da leggere in labiale di quelli lanciati da dietro i finestrini chiusi. Ora rimango qui come un vagone fermo pieno di ricordi e un groppo che non scende . Non ti sei voltato nemmeno per un “ciao” sei rimasto con un silenzio di pietra d’Appennino gli occhi asciutti e quella poca neve. Ora capisco la tua voce fatta di silenzi dicono che bisogna andare quando è tempo, coi nostri passi, portandoceli tutti. Nella valigia che ci hai lasciato è rimasto il muschio di tutti i presepi che non abbiamo fatto, li terrò accanto alla capanna calda che eravamo noi. Il Babbo Natale se ne starà nel tuo canto rotondo nella schiuma da barba del mattino; quando questo non basterà verrai nel sogno ad appoggiare la scala a qualche luna. Tu, pietra di Davide e fionda di parole mai ti sei messo all’ombra di una croce; ma una preghiera sale sale dal sudore della tua fronte e dalle tue mani sporche preghiera fatta di silenzi e di bestemmie lacrime vestite di sudore, perle di un rosario sgranato tutti i giorni. Se ci fosse un dio, uno dei tanti che ti hanno messo avanti, lo guarderesti in faccia con l’orgoglio delle tue mani sporche gli daresti un “tu” che sa di uomo, gli guarderesti le mani grideresti poche parole a salmo e scaglieresti l’ultimo pugno di terra contro il cielo. Resterò io a raccogliere la terra che hai lasciato al tuo figlio ruvido e silente, con troppi lupi dentro, con la coscienza che il tuo silenzio serviva da cornice a quelle nostre vite … cornice fatta con le radici dei faggi di montagna. Ora che sei del cielo, che ti basta perché nulla hai voluto se non ciò che fosse tuo, vai dalla tua sposa, la sua mano da troppo tempo vaga nel tuo posto vuoto … portala con te nella tua isola pietrosa, fa che il suo ultimo sospiro si spenga su un prato di margherite spettinate.

     

    Di Paolo Valerio

    A volte ciò che rimane è solo la verità di un rapporto mortale da cui ci si è salvati a stento, un po’ per la sorte che sceglie gli incontri, un po’ perché il pensiero, prima dello scontro con Lui, aveva raggiunto certezze … certezze sufficienti per reggere l’urto della sua presenza e della sua scomparsa.

    Al padre

    Quando morì,

    per piangerlo, cercai l’odio.

    E non si può odiare qualcuno

    nella sua fisica assenza.

    Così, l’odio rimase li,

    quasi inutile

    a confondermi la mente.

    E mi odiai

    per non poter amare

    né odiare.

     

    Tempo venne.

    Vennero le donne;

    odio e amore

    ebbero un volto.

    Ogni volta, Io scelsi.

     

    Maggio 1999 – G.C. Zanon

     

    La memoria per evocarlo ricolora immagini sbiadite dal tempo. Immagini a cui dare un senso e “l’odore del mosto”. Immagini necessarie per raccogliere i pensieri di Lui mai divenuti parola e dargli la voce portata con sé.

     

    Mio padre è una vena gonfia
    è pelle spaccata
    un luogo lontano.

    Quando sono nata
    sapeva di mosto
    nelle notti d’ottobre.

    Non ho potuto mai chiedere
    dove sprofondava
    quando fissava silenzioso
    le sue mani vuote.

    Lo sento, acquattato,
    nella mia fame di parole
    nel crollo di tragici dei.


    Luglio 2013 – Rosa Rivelli

    E ciò che rimane del padre può giungere all’altro attraverso la memoria di ciò che rimane dello sguardo materno intento a decifrare l’assenza.

     

    «Questa è stata scritta quando è morto mio padre … ne scrissi una anche a lui in quei giorni.» ha detto Valerio affidandomi le sue parole:

     

    A mia madre

     

    Ora te ne stai lì, con un chiodo fitto nell’assenza. Sorda , ali dolenti in grembo e gli occhi altrove. Brancoli a volte come una rondine stordita cercando in terra un cielo che non c’è. Rimani lì, nella stazione di ogni giorno … passano i tuoi sogni e mai nessuno scende. Solo, sulla banchina opposta, un uomo senza volto ti rammenta il peso delle ombre. Ma io ti vedo ancora dalle finestre spalancate al giorno guardarmi ridente in viso come solo fanno i girasoli, e nemmeno nei giorni bui dalle finestre chiuse hai messo misura alle tue ali. Ti ricordo regina con canovaccio e conca guardare solo avanti mentre piccoli paggi reggevano impazienti lo strascico di una vestaglietta sdrucita ma di colori piena. I sogni della farina cullavi nelle mani e nei risvegli il pane era pane e il giorno, un giorno … e quelle infinite estati che celavano sorrisi nelle fette fresche di un cocomero tagliato … Ora vorresti solo che dall’ultimo tuo sogno, impolverate, nell’azzurro di una vecchia tuta, scendessero leggere le sue mani a farsi focolare delle tue narrandoti di nuovo la bella fiaba che sei stata. Forse il tempo per raccontarla sarà poco, un infinito non basterà , ne serviranno due. Quando infine indosserai le scarpe nuove, quelle con cui nessuno torna, io terrò in tasca il filo reciso a un aquilone e avrò negli occhi amati i colori antichi di una rondine volata.

     

    Di Paolo Valerio

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