• Acrid, l’urlo inascoltato delle donne iraniane

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    di Ida De Santis

    Acrid – storia di donne – è l’interessante opera prima, in programmazione nelle sale italiane a partire da giovedì 11 giugno, con la quale il regista iraniano Kiarash Asadizadeh si affaccia sul panorama cinematografico internazionale.
    Acre, aspro, cosi come racconta il suo titolo, è il contenuto del film.


    Acrid, la cui onomatopeica può evocare il termine grido, è l’urlo spesso rabbioso, a volte sommesso, a tratti rassegnato di quattro donne che consumano la loro esistenza nell’Iran di oggi.
    Il velo con il quale ognuna di loro rigorosamente copre il capo, è l’immagine stridente di un paese in bilico tra riformismo e conservazione, un paese in cui la donna sempre meno sopporta le regole di vita imposte dalla Rivoluzione islamica del 1979.


    E comunque, mentre l’ortodossia dei costumi è ancora oggi rigidamente vigilata, la vita, con le sue emozioni, le sue contraddizioni, le sue storie, corre veloce.
    Soheila, Azar, Simin, Masha, sono i nomi delle quattro protagoniste che racchiudono immagini di donne moderne la cui vita è contrassegnata da un impegno sociale e professionale (medico, segretaria, docente di chimica, studentessa universitaria) ma dove contestualmente il profilo di ognuna è fermo ad un tempo antico, segnato da un destino di sofferenza, insoddisfazione, frustrazione, rabbia.
    Il motivo di tanto dolore sembra essere racchiuso nel microcosmo dei loro rapporti personali, dove gli uomini diventano i capri espiatori di tutte le frustrazioni. Una crisi che coinvolge trasversalmente le vecchie e le nuove generazioni, senza esclusione di colpi, dove la rabbia urlata dalle donne si infrange contro il muro di anaffettività di uomini che non sanno opporre al rancore delle accuse alcuna dialettica, trovando nel tradimento, l’unica forma di sopravvivenza possibile.
    Persa quindi, in un sordo livore, qualunque possibilità di confronto, ai protagonisti non resta altro che la violenza verbale, con la quale apostrofarsi reciprocamente rendendo incolmabile qualunque distanza, rendendo vana qualunque speranza di rapporto, rendendo impossibile qualunque ricerca di comprensione:
    “il tuo silenzio mi ferisce” “la tua freddezza mi uccide” “ perché non te ne vai” “non vedo l’ora che tu muoia così io sarò libera” “voglio andare a letto- speriamo che non ti alzi più” “sono sola perché mio marito era una merda come te” … sono queste alcune esemplari frasi tratte dai dialoghi del film.
    Novantaquattro minuti di grigiore esistenziale, che riverbera per tutta la durata della pellicola, attraversata da ambienti grigi e opachi, dove anche il mare perde la seduzione del colore.


    Kiarash Asadizadeh in una intervista afferma, quasi con rammarico, di aver voluto con questo film denunciare la crisi della istituzione familiare:

    «Alcuni anni fa, la famiglia contava molto per il mio popolo. Famiglia e matrimonio erano parole piene di amore e rispetto. Purtroppo adesso, dopo molti anni, le fondamenta alla base delle famiglie sono diventate instabili, in parte per colpa della società e in parte per colpa della famiglia stessa. Tutti questi problemi hanno fatto si che io creassi il mio primo lungometraggio, intitolato ACRID. Questo film rappresenta in parte la realtà delle odierne famiglie iraniane. Non si tratta né di una diagnosi né necessariamente di una risoluzione ai problemi. Il film vuole semplicemente essere un avvertimento per quelle famiglie che non sono consapevoli del loro status, non sono consapevoli, fino in fondo, di vivere nella menzogna e influenzare e colpire persone innocenti, vittime di colpe e violenze perpetrate da altre persone. Dal mio punto di vista, tutto è collegato, nella vita tutto ha una ciclicità, ed è su questa filosofia che si basa ACRID. Con la speranza che questo film possa penetrare nei nostri cuori e farci comprendere come stiamo agendo e in quale direzione stiamo andando».

    Una fotografia, quindi, nuda e cruda della realtà con la quale il regista immortala la crisi irreversibile di una istituzione ormai in declino.
    Istituzione che rischia di essere un falso contenitore di esseri umani, una fabbrica di infelicità, fino a quando uomini e donne non sapranno ritrovare la sincerità dei sentimenti, la pulizia delle emozioni, il coraggio del rifiuto, la capacità di mettersi in crisi, la speranza di una trasformazione; fino a quando la società non saprà accogliere quel rinnovamento culturale che riconosce alle donne, non solo un’emancipazione professionale, ma anche una assoluta, imprescindibile, uguaglianza di genere.

     

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    Acrid, che per la sua struttura ciclica è stato paragonato al Cerchio di Jafar Panahi, rimanda la stessa atmosfera di pericolosa precarietà in cui è immerso il mondo femminile iraniano.


    Medesimo ritratto di donne perennemente in fuga: fuga dalle patrie galere, come raccontato dall’illustre predecessore, fuga dalla prigione dei propri rapporti personali come succede in Acrid.


    Il film si conclude con le lacrime di Masha, giovane studentessa alle prese con il tradimento del suo compagno. La mdp segue il dolore della ragazza durante il tragitto che la porta dalla casa delle amiche a quella paterna, figura nella quale Masha ripone la speranza di un conforto, non sapendo che il padre vive le medesime colpe, le medesime contraddizioni, le medesime difficoltà del suo ragazzo.

    nelle sale italiane dall’11 giugno

    • a leggere le frasi del regista,sembra di udire le parole del gesuita bergoglio, o del defunto ayatollah khomeini:la famiglia il matrimonio………… non una parola sulla libertà e l’egualianza per le donne del suo popolo ,ma un rimpianto al tempo che fu e che ancora continua ad essere! che allegria…………….

      • Non sono molto d’accordo su quanto scrivi per due ragioni. La prima è che l’artista non è mai un buon critico di se stesso perché a volte fa delle cose che vanno al di là della propria intenzionalità. La seconda è che, secondo me, il regista parla della famiglia come il luogo degli affetti e non in termini istituzionali come sembrerebbe pensi tu. Certo in quello scorcio di intervista il regista non parla dell’eguaglianza delle donne iraniane, ma la rappresenta nel film con la loro ribellione interiore all’arroganza maschile che continua a vederle come esseri inferiori. Il film ci parla di questa consapevolezza femminile.

        ROberta C.

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