• Michela Murgia – Accabadora

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    di Gian Carlo Zanon

    «Acabar, in spagnolo, significa finire. E in sardo accabadora è “colei che finisce”. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino devenuto crudele a compiersi. È lei l’ultima madre».

    Così è scritto sulla quarta di copertina del libro di Michela Murgia. E immediatamente, con questo romanzo, si scavalcano tempo e spazio per essere catapultati da un paese della Sardegna degli anni Cinquanta al mondo d’oggi con le sue domande strazianti e le sue incerte risposte sul senso della nascita e della morte umana; sul come e quando inizia la vita e quando questa ha fine. Sembrava che il codice napoleonico di inizio ottocento e il protocollo di Harvard avessero chiarito per sempre i confini tra feto e neonato e tra vivo e morto ma la ricerca genetica, le nuove tecniche di rianimazione e il neo-revanscismo cattolico hanno messo in crisi certezze illuministiche e dato onnipotenza a coloro che gestiscono l’alienazione religiosa.

    Si, perché in questa storia si parla di eutanasia, e, grazie a questo lavoro di Michela Murgia, veniamo a sapere che in quei contesti, ancora pervasi da radicati e invisibili codici sociali, alla vita e alla morte si appone sempre l’aggettivo ‘umana’. «La Sardegna degli anni Cinquanta è un mondo antico (…) ha le sue regole e i suoi divieti, una lingua atavica e taciti patti condivisi. La comunità è come un organismo, conosce le proprie esigenze per istinto e senza troppe parole sa come affrontarle».

    Il romanzo narra anche di un’altra consuetudine sociale: quando un bambino non può essere mantenuto dalla famiglia originaria, viene ‘adottato’ da qualcuno, all’interno della società rurale, che lo aiuti crescere decentemente. Tutto questo avveniva, probabilmente succede ancora, senza bisogno di magistratura e documenti, ma solo con un tacito accordo tra famiglie. In questo modo, una bambina, Maria Lustru, diviene ‘figlia’ di Tzia Bonaria Urrai l’accabadora di Sereni. «Fillus de anima. È così che chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Lustru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai». Come potete vedere l’uso di questo linguaggio crudo e arcaico è straordinario: per rappresentare questa storia viscerale, l’autrice traccia fonemi dal suono netto: è come un sasso che batte su di un sasso. Suoni sordi evocano tutto il pathos dell’esistere umano. Da queste parole, che hanno la certezza della terra, nascono immagini scolpite nella roccia, immagini finite, come le ombre che a mezzogiorno si nascondono sotto le cose del mondo. Le parole di Michela Murgia varcano il confine tra parola e immagine con fiammate di poesia che incendiano il senso dell’umano vivere e morire dei personaggi.

    Tzia Bonaria accoglie Maria nella propria casa riconoscendole ciò che la prima madre le aveva sempre negato: un’identità umana: «E adesso avrà molto da insegnare a quella bambina cocciuta e sola: come cucire le asole, come armarsi per le guerre che verranno, come imparare l’umiltà di accogliere sia la vita sia la morte».

    Ogni romanzo ha un ritmo interno e anche colori che ne dipingono la trama. Questo romanzo è grigio come le giornate di nebbia e buio come gli abiti delle vedove sarde e siciliane degli anni cinquanta; l’ambiente ricorda le ricerche antropologiche di De Martino; l’atmosfera umana è affascinante, cupa e si odono di continuo gli urti delle nubi … tuoni lontani che annunciano tragedia.

    E la tragedia umana che divampa è sempre la perdita della propria possibilità, data in sorte dalla nascita, di tenere dentro di sé l’intuizione dell’infinito divenire; la tragedia umana è l’identificazione con, nel caso di Maria, la seconda madre, “l’ultima madre”. Difficile rifiutare l’identificazione con colei che ti ha dato una seconda nascita…ma non ti permette la separazione dello svezzamento. Maria Lustru cade nella trappola mortale dell’identificazione tesagli dalla vecchia accabadora. Maria si identifica con la seconda madre e ne prende il ruolo perché come dice lei può fare solo: «Quello che so fare: la sarta».

    La ragazza sarà sarta: filerà, cucirà, e… taglierà. Maria Lustru diventa Maria Lustru Urrai la ‘sarta’, colei che fila, cuce, e taglia come le tre Moire della mitologia greca: Atropo filava il filo della vita, Cloto lo avvolgeva e Lachesi lo tagliava allorché la vita corrispondente era terminata.

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