• Il fantasma di Canterville di Oscar Wilde (testo)

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    Capitolo I

     

    Quando Mister Hiram B. Otis, ministro degli Stati Uniti, acquistò Canterville Chase, tutti gli dissero che commetteva una grande sciocchezza, poiché non vi era dubbio di sorta che l’intera località non fosse letteralmente infestata dagli spiriti. Lo stesso lord Canterville, persona scrupolosissima in materia d’onore, si era sentito in dovere di fargli presente la realtà dei fatti, quando si trovarono per discutere le condizioni di vendita.

    “Neppure noi abbiamo più avuto il coraggio di abitarvi,” spiegò lord Canterville “da quando la mia prozia, la vecchia duchessa di Bolton, si spaventò in modo tale che le prese un attacco di nervi dal quale non si riebbe mai completamente, per colpa di due mani scheletriche che le si posarono sulle spalle mentre si stava vestendo per scendere a pranzo. Mi sento tenuto a precisarle, mister Otis, che il fantasma è stato visto da diversi membri della mia famiglia tuttora viventi, come pure dal rettore della parrocchia, il reverendo Augustus Dampier, che è membro del King’s College di Cambridge. Dopo il disgraziato incidente toccato alla duchessa, nessuna delle domestiche giovani volle più restare al nostro servizio, e persino lady Canterville stentava a prendere sonno, la notte, a causa dei misteriosi rumori che provenivano dal corridoio e dalla biblioteca”.

    “Mio egregio lord,” fu la risposta del ministro “sono disposto a comprare in un solo blocco suppellettili e fantasma. Io sono nato in un paese moderno dove col denaro si può acquistare tutto, e con i nostri intraprendenti giovani che dipingono di rosso il vostro vecchio mondo, e vi soffiano via le vostre migliori attrici e le vostre primedonne, sono certo che se in Europa esistesse davvero uno spettro, ce lo saremmo portato a casa nostra già da un pezzo e lo avremmo collocato in bella mostra in qualche museo o in qualche baraccone da fiera”.

    “Ho il convincimento che il fantasma esista realmente,” replicò lord Canterville sorridendo “per quanto può da tre secoli, anzi dal 1584, per essere esatti, e non manca mai di fare la sua comparsa prima della morte di un membro della nostra famiglia”.

    “Be’, in quanto a questo non è da meno del medico di casa, lord Canterville. Ma io le dico che roba simile, come spettri e fantasmi, non esiste, e non credo che le leggi della natura subiscano speciali alterazioni per riguardo all’aristocrazia britannica”.

     

    “Certo in America siete tutti estremamente pratici” rispose lord Canterville che non aveva pienamente afferrato il senso dell’ultima frase detta da Mister Otis, “e se non le importa di avere uno spettro in casa, per me fa lo stesso. Però la prego di tenere presente che io l’ho avvertita”.

     

    Poche settimane dopo questo colloquio la compravendita del castello fu perfezionata, e al termine della stagione il ministro e la sua famiglia andarono a stabilirsi a Canterville Chase. Miss Otis, quando era la signorina Lucrezia R. Tappan, della Cinquantatreesima Strada Ovest, era stata una famosa bellezza nuovayorkese; ora era un’avvenente donna di mezza età, con due occhi magnifici e un profilo superbo. Molte signore americane, non appena abbandonano il loro paese natale, adottano un’apparenza di semi-infermità cronica, forse ritenendo che ciò sia una forma di raffinatezza europea: Miss Otis non era mai caduta in questo errore. Godeva di una salute di ferro e possedeva una vera miniera di meravigliosi istinti animali. A dire il vero, sotto molti punti di vista poteva essere scambiata per una inglese autentica, costituiva un fulgido esempio del fatto che noi in realtà abbiamo tutto in comune con gli americani, fuorché naturalmente il linguaggio. Suo figlio maggiore, battezzato Washington dai genitori in un momento di patriottismo di cui egli non cessò mai di rammaricarsi, era un ragazzo biondo, mica male fisicamente, che si era fatto strada nella diplomazia americana ballando i valzer tedeschi per tre stagioni consecutive al Casinò di Newport, ed anche a Londra era ben noto come ottimo ballerino.

    Le sue sole debolezze erano le gardenie e i titoli nobiliari. Per il resto, era un ragazzo di grande buon senso. Miss Virginia E. Otis era una ragazzina di quindici anni, graziosa e fragile come una cerbiatta, con una bella espressione di sicurezza e d’indipendenza nei grandi occhi azzurri. Era una meravigliosa amazzone, e aveva corso due volte in gara con lord Bolton attorno al parco, superandolo di una lunghezza e mezza, proprio di fronte alla statua di Achille, e suscitando un entusiasmo indescrivibile nel giovane duca di Cheshire, che le si era dichiarato seduta stante ed era stato rimandato a Eton quella sera stessa dai suoi tutori, in un torrente di lacrime. Dopo Virginia venivano i gemelli, soprannominati di solito “Stelle e Strisce” per la rapidità vertiginosa dei loro movimenti. Erano due ragazzi simpaticissimi e, con la sola eccezione del degno ministro, i soli veri repubblicani della famiglia.

    Poiché Canterville Chase dista sette miglia da Ascot, che è la stazione ferroviaria più vicina, Mister Otis aveva telegrafato perché venissero a prenderli con una giardiniera, e tutta la famiglia si accomodò di ottimo umore sui sedili, per la breve scarrozzata. Era una deliziosa sera di giugno e l’aria era fragrante del profumo acuto dei pini. Di quando in quando si udiva il dolce richiamo del colombo selvatico o si intravvedeva, affondato tra le felci fruscianti, il petto dorato di un fagiano. Gli scoiattoli occhieggiavano incuriositi al loro passaggio dall’alto dei faggi, e i conigli scutrettolavano via per il sottobosco e su per i poggi erbosi, le candide code all’aria.

    Non appena gli Otis ebbero imboccato il viale di Canterville Chase, il cielo si coprì improvvisamente di nuvole fosche, una strana immobilità parve imprigionare l’aria, un gran volo di corvi passò silenzioso sul loro capo e prima che raggiungessero la dimora grosse gocce di pioggia incominciarono a cadere.

     

    A riceverli sulla soglia del castello trovarono una vecchia donna vestita lindamente di seta nera, con una cuffia e un grembiule bianco. Era la signora Umney, la governante che Mister Otis aveva acconsentito a tenere al proprio servizio per espressa richiesta di lady Canterville. La signora Umney fece a ciascuno un profondo inchino mentre scendevano di vettura e disse loro con un garbo compito e antiquato: “Vi auguro il benvenuto a Canterville Chase”.

    Seguendo i suoi passi, i membri della famiglia Otis passarono dal bel vestibolo in stile Tudor nella biblioteca che era una sala lunga e bassa rivestita di quercia nera, all’estremità della quale si trovava una grande finestra istoriata. Il tè era già apparecchiato su un tavolino e quelli, dopo essersi tolti gli spolverini da viaggio, presero a guardarsi intorno, mentre la signora Umney si occupava di loro.

     

    A un tratto la signora Otis notò una macchia di colore rosso opaco che imbrattava il pavimento proprio vicino al caminetto e, senza rendersi minimamente conto di quel che in realtà significasse, l’additò alla signora Umney soggiungendo: “Credo che laggiù sia stato versato qualcosa”.

    “Infatti signora,” rispose la vecchia governante sottovoce “è stato versato del sangue, in quel punto”.

    “Che orrore!” gridò la signora Otis. “Non mi piace affatto che ci siano macchie di sangue in un salotto: bisogna farla togliere immediatamente”.

    La vecchia sorrise e disse con lo stesso tono di voce basso e misterioso: “E’ il sangue di lady Eleonore de Canterville, che fu assassinata in quel punto preciso dal proprio marito, sir Simon de Canterville, nel 1575. Sir Simon le sopravvisse di nove anni e poi scomparve subitamente in circostanze assai misteriose. Il suo corpo non è mai stato rinvenuto, ma il suo spirito peccatore vaga tuttora per il castello. La macchia di sangue è stata sempre molto ammirata da turisti e visitatori, e non è possibile toglierla”.

    “Quante storie” gridò Washington Otis. “Il Super Smacchiatore e Detersivo Incomparabile Pinkerton la farà sparire in due secondi”, e prima che la governante, terrorizzata, avesse il tempo di aprire bocca, il giovanotto era già per terra e stava fregando energicamente il pavimento con un bastoncino che pareva una specie di cosmetico nero. Effettivamente, pochi istanti dopo, ogni traccia di sangue era scomparsa.

    “Ero sicuro che il Pinkerton avrebbe dato un risultato immediato” esclamò il giovane trionfante, lanciando occhiate di soddisfazione ai congiunti che lo guardavano ammirati; ma aveva appena proferite queste parole che un tremendo guizzo di folgore luccicò nella sala buia e un pauroso scoppio di tuono li fece balzare in piedi; la signora Umney svenne.

    “Che clima spaventoso” osservò calmo il ministro, accendendosi un lungo sigaro. “Credo dipenda dall’eccesso di popolazione che affligge il vecchio continente e non permette una distribuzione uniforme per tutti i fenomeni atmosferici. Io sono sempre stato del parere che soltanto l’emigrazione può rimettere in sesto l’Inghilterra”.

    “Mio caro Hiram,” esclamò la moglie “che cosa ce ne facciamo di una donna che sviene alla minima sciocchezza?”.

    “Trattieniglielo sullo stipendio come faresti per qualche rottura,” le rispose il ministro “vedrai che non svenirà più, d’ora in poi”. E infatti di lì a pochi istanti la signora Umney si riebbe di colpo. La povera donna era indubbiamente fuori di sé, e con rotte parole supplicò il signor Otis di stare in guardia, che qualche guaio grosso si preparava a colpire il castello.

    “Ho visto cose terribili con questi miei poveri occhi, signore; cose che farebbero rizzare i capelli in testa ad ogni buon cristiano. E quante notti insonni ho passato per i fenomeni spaventosi che si verificano in questa casa!”.

     

    Sia Mister Otis che sua moglie rassicurarono la brava donna che essi non avevano nessunissima paura degli spettri, cosicché dopo aver invocato le benedizioni della Provvidenza sui suoi nuovi padroni ed essersi messa d’accordo con loro per un aumento di salario, la vecchia governante si ritirò a passi barcollanti nella propria camera.

     

     

     

    Capitolo II

     

    Il temporale imperversò furioso tutta la notte, ma non accadde nulla di notevole. La mattina seguente, tuttavia, quando scesero per la prima colazione, trovarono che la spaventosa macchia di sangue era ricomparsa sul pavimento. “Non credo possa essere colpa del Super Detersivo,” osservò Washington “perché l’ho provato con tutto e mi ha sempre dato risultati perfetti. Dev’essere stato il fantasma”. Di conseguenza fregò via la macchia una seconda volta, ma ecco che la seconda mattina era comparsa di nuovo. E ci fu anche la terza mattina, benché la biblioteca fosse stata chiusa a chiave la notte da Mister Otis in persona, il quale aveva poi portato via la chiave con sé. Tutta la famiglia cominciava ormai a interessarsi seriamente alla faccenda: a Mister Otis venne il sospetto di essere stato forse un po’ troppo dogmatico nel negare l’esistenza di fantasmi, Miss Otis espresse l’intenzione di farsi socia dell’Associazione Psichica, e Washington stilò una lunga lettera per i signori Myers & Pomodore sulla permanenza delle macchie sanguigne allorché queste siano connesse con qualche delitto. Quella notte ogni dubbio intorno all’effettiva esistenza dei fantasmi fu dissipato per sempre.

     

    Il giorno era stato caldo e soleggiato e quando, verso sera, l’aria rinfrescò, la famiglia Otis uscì in massa per una scarrozzata. Non rincasarono che alle nove, e consumarono un pasto leggero. Durante la conversazione non fu fatto il benché minimo accenno a spettri e fantasmi, di modo che mancavano anche quelle condizioni primarie di attesa ricettiva che spesso precedono il verificarsi di fenomeni psichici. Come mi narrò in seguito Mister Otis, il discorso cadde su quegli argomenti che formano di solito il nocciolo della conversazione tra gli americani colti delle classi superiori, come ad esempio l’enorme superiorità, quale attrice, della signorina Fanny Davenport al confronto di Sarah Bernhardt; la difficoltà di trovare granoturco acerbo, focacce di sorgo e pannocchie bollite nel latte anche nelle migliori case inglesi; l’importanza di Boston sullo sviluppo dell’anima universale; i vantaggi del bagaglio assicurato nei viaggi per ferrovia, e la dolcezza dell’accento di Nuova York in paragone alla pronuncia strascicata dei londinesi. Non si parlò neppure lontanamente di cose soprannaturali e tanto meno fu fatta alcuna allusione a sir Simon de Canterville. Alle undici la famiglia si ritirò e alle undici e mezzo tutte le luci erano spente.

    Poco tempo dopo Mister Otis venne però risvegliato da un curioso rumore che proveniva dal corridoio, proprio davanti all’uscio di camera sua. Risuonava come uno stridore di metallo che pareva farsi sempre più vicino ad ogni istante. Il ministro si alzò senza indugi, accese un fiammifero e guardò l’orologio. Era l’una esatta. Si sentiva calmissimo, e si tastò il polso per accertarsi di non essere febbricitante. Lo strano rumore continuava, accompagnato ora da un distinto strascicare di passi. Il ministro s’infilò le pantofole, tolse dal cassetto del tavolino da notte una minuscola fiala di forma oblunga, e aprì la porta. Diritto davanti a sé vide ergersi, nell’esangue luce lunare, un uomo dall’aspetto spaventoso.

    Aveva gli occhi rossi come due carboni ardenti: lunghi capelli grigi gli ricadevano per le spalle in ciocche incolte, e le vesti, di foggia antica, erano tutte lacere e imbrattate; dai polsi e dalle caviglie, infine, gli pendevano pesanti manette e ceppi arrugginiti.

     

     

     

    “Egregio signore,” incominciò Mister Otis “sono costretto a pregarla di oliare un po’ come si deve quelle sue catene, e le ho portato a questo scopo una bottiglietta di Lubrificante Solare Tammany. Me lo hanno garantito efficacissimo fin dalla prima applicazione, e potrà leggere parecchie testimonianze AD HOC, riportate sul foglietto di propaganda, da parte di alcuni tra i nostri più eminenti teologi. Glielo lascio qui per suo uso accanto alle candele della camera da letto, e sarò felicissimo di fornirgliene dell’altro, qualora ne avesse bisogno”.

    Con queste parole, il ministro degli Stati Uniti posò la bottiglietta su un tavolo di marmo, chiuse la porta e si ritirò a riposare.

     

    Per un attimo il fantasma di Canterville rimase letteralmente paralizzato dallo sdegno; quindi, dopo aver gettato con violenza la fiala sul lucido pavimento, svolazzò per il corridoio gemendo cupamente ed emanando una verde luce spettrale. Proprio nel momento in cui giungeva al sommo della grande scalinata di quercia, ecco che un uscio si spalancò lasciando intravvedere sulla soglia due figure biancovestite, e un grosso guanciale passò sibilando ad un pelo della sua testa. Non c’era evidentemente tempo da perdere; perciò adottando in tutta fretta la quarta dimensione come unica via di scampo, lo spettro svanì attraverso il rivestimento di legno della parete, restituendo alla casa quiete e silenzio.

     

    Come ebbe raggiunta una piccola stanza segreta, nell’ala sinistra del castello, si appoggiò a un raggio di luna onde riprendere fiato e incominciò a riflettere sulla propria situazione.

    Mai, mai, nella sua brillante ed ininterrotta carriera tricentenaria, egli era stato così grossolanamente insultato. Ripensò alla vecchia duchessa da lui spaventata al punto di farla cadere in un attacco isterico, mentre si ammirava davanti allo specchio nei suoi pizzi e nei suoi diamanti: pensò alle quattro cameriere che aveva fatto uscire di senno, semplicemente sghignazzando alle loro spalle da dietro le tendine del guardaroba. Ripensò al Rettore della parrocchia al quale aveva spento la candela una notte che usciva tardi dalla biblioteca, e che da quella volta aveva dovuto essere affidato alle cure di sir William Gull, divenuto com’era un misero essere, sempre in preda a gravissime turbe nervose. E che dire della vecchia signora de Trémouillac la quale essendosi svegliata presto un mattino e avendo visto uno scheletro seduto in poltrona accanto al caminetto, intento a leggere il suo diario, era stata costretta a letto per ben sei settimane da un attacco di febbre cerebrale, e non appena ristabilita si era riconciliata con la Chiesa e aveva rotto ogni rapporto con quel noto scettico che era il signor Voltaire. Ripensò alla notte da tregenda in cui il malvagio lord Canterville fu trovato rantolante nel proprio spogliatoio, con il fante di quadri mezzo infilato nella gola, e confessò sul punto di morire di aver sottratto a Charles Fox cinquantamila sterline al Casinò di Crockford, precisamente grazie a quella carta, e giurò che era stato il fantasma a fargliela ingoiare.

     

    Le sue grandi imprese gli tornarono tutte alla mente; dal maggiordomo che si era ucciso nella dispensa con un colpo di pistola per aver visto una mano verde battere contro i vetri della finestra, alla bellissima lady Stutfield, costretta a portare sempre annodato al collo un nastro di velluto nero per nascondervi l’impronta che cinque dita di fuoco le avevano lasciato sulla candida pelle, e che alla fine si era annegata nello stagno delle carpe, in fondo al Viale del Re. Con l’egotismo entusiastico dell’artista nato, riandò col pensiero alle sue trasformazioni più famose e sorrise amaramente tra sé, rammentando la sua ultima apparizione sotto le spoglie di “Ruben il Rosso”, ovvero “L’Infante Strangolato”, il suo “début” nella personificazione di “Gibeone l’allampanato”, e il “furore” che aveva suscitato in una languida sera di giugno limitandosi a giocare a birilli con le proprie ossa sul terreno del campo di tennis. Ebbene, dopo tutte queste gesta, dovevano venire quattro miserabili americani moderni a offrirgli del Lubrificante Solare e a buttargli dei cuscini in testa! Era una situazione assolutamente insopportabile. D’altronde mai nessun fantasma, nel corso della storia, era stato trattato a quel modo. Decise pertanto di vendicarsi adeguatamente, e rimase immerso sino allo spuntare del giorno in un atteggiamento di profonda meditazione.

     

     

    Capitolo III

     

    Allorché i componenti della famiglia Otis si riunirono il mattino successivo intorno al tavolo della prima colazione, la questione del fantasma venne discussa particolareggiatamente. Com’era naturale, il ministro degli Stati Uniti era piuttosto seccato che il suo dono fosse stato accolto con tanto malgarbo. “Io non ho l’intenzione,” disse “di recargli alcuna offesa personale, e se si considera il lunghissimo periodo di tempo da cui egli è ospite di questa casa, trovo che non sia affatto educato accoglierlo con scariche di cuscini”. Osservazione molto giusta e saggia, alla quale, mi dispiace di doverlo ammettere, i gemelli scoppiarono in omeriche risate. “D’altro canto,” proseguì il ministro “se lui si ostina a non adoperare il Lubrificante Solare ci vedremo costretti a togliergli le catene, perché sarebbe impossibile dormire, altrimenti, con quel chiasso tremendo proprio a due passi dalle stanze da letto”.

     

    Il resto della settimana trascorse senza che essi venissero più disturbati: l’unico fenomeno che seguitava ad attrarre la loro attenzione era il continuo rinnovarsi della macchia di sangue sul pavimento della biblioteca. Questo era certamente un fatto inesplicabile, dato che la porta della biblioteca veniva chiusa a chiave ogni sera da Mister Otis in persona e le finestre ermeticamente sbarrate dall’interno. Lo stesso colore, per così dire camaleontico, della macchia, era di per sé sconcertante e dava adito ad un mucchio di commenti. Alcune mattine era di un rosso cupo (quasi indiano), altre volte diventava vermiglia, poi trascolorava in fosca porpora, e un giorno che si erano riuniti in biblioteca per la preghiera in comune, secondo il semplice rito della Libera Chiesa Episcopale Americana Riformata, la trovarono trasformata in un bel verde smeraldo.

    Questi mutamenti caleidoscopici, com’era logico, divertivano moltissimo tutti quanti, e ogni sera davano luogo a scommesse.

    L’unica persona che non prendesse parte a quegli spassi era la piccola Virginia che, chissà per quale inesplicabile motivo, appariva sempre molto preoccupata alla vista della macchia di sangue, e il mattino che la trovò color verde smeraldo quasi quasi si mise a piangere.

     

     

    Il fantasma fece la sua seconda comparsa nella notte della domenica. Erano da poco andati a letto quando intesero un pauroso fracasso nel vestibolo. Si precipitarono tutti di sotto e constatarono che una enorme, antichissima armatura, si era staccata dal suo supporto ed era caduta sul pavimento di pietra, mentre il fantasma di Canterville, seduto su una poltrona dall’alto schienale, si stava soffregando le ginocchia con un’espressione di acuta sofferenza dipinta sul volto. I gemelli, che erano venuti armati dei loro scacciacani, si affrettarono a sparargli addosso due scariche di pallottoline, con quella precisione di mira che si può ottenere soltanto dopo lunghe e attente esercitazioni sul proprio maestro di calligrafia, mentre il ministro degli Stati Uniti gli puntò addosso il revolver e, seguendo le regole dell’etichetta californiana, gli ingiunse di alzare le mani. Il fantasma balzò in piedi con un urlo inumano di rabbia e guizzò tra loro, dileguò come una nebbia, spegnendo al suo passaggio la candela che Washington Otis teneva in mano e lasciandoli così immersi in un’oscurità completa. Arrivato che fu in cima alle scale, si riprese e decise di prorompere nel suo celebre scroscio di risa demoniache. Queste gli erano state estremamente utili in più di un’occasione. Si dice che avessero fatta diventare grigia, in una sola notte, la parrucca di lord Raker, e comunque era un fatto che, per causa loro, ben tre governanti francesi di lady Canterville si erano licenziate prima della fine del mese di prova. Pertanto rise il suo terribile riso, finché l’antica volta non risuonò ripetutamente in ogni recesso; ma la sua eco paurosa si era appena spenta che un uscio si aprì e Miss Otis vi si affacciò avvolta in una veste da camera azzurro chiaro dicendo: “Ho proprio paura che lei non stia affatto bene.

     

    Perciò le ho portato una bottiglia di Tintura del Dottor Dobell. Se si tratta di indigestione lo troverà un rimedio veramente ottimo”.

    Il fantasma le lanciò un’occhiata satanica di indignazione e incominciò subito a fare i preparativi necessari per potersi trasformare in un enorme cane nero, una bravura per la quale era giustamente rinomato e alla quale il medico di famiglia aveva sempre attribuito l’idiozia congenita dello zio di lord Canterville, l’onorevole Thomas Horton. Ma un rumore di passi che si avvicinavano lo fece recedere dal suo bieco proposito, e si accontentò pertanto di diventare appena appena fosforescente, dileguandosi con un profondo e funereo gemito proprio nel momento in cui i gemelli stavano per piombargli addosso.

     

    Come egli fu nella sua stanza, le forze lo abbandonarono e cadde in preda ad una violenta agitazione. La volgarità dei gemelli e il rozzo materialismo della signora Otis erano, si capisce, molto spiacevoli, ma ciò che lo rendeva addirittura disperato era l’aver dovuto constatare di non essere stato capace d’indossare la cotta di maglia. Aveva sperato che persino degli americani moderni si sarebbero emozionati a vedere uno spettro in armatura, se non per altro motivo, almeno per rispetto del loro poeta nazionale Longfellow, sulle cui poesie così piene di grazia e di fascino egli stesso si era intenerito nelle lunghe ore d’ozio, mentre i Canterville erano in città. Era la sua armatura, per giunta: l’aveva indossata al torneo di Kenilworth, e ne era stato molto complimentato niente di meno che dalla Regina Vergine in persona.

     

    Tuttavia, non appena aveva tentato di mettersela, poc’anzi, il peso dell’enorme corazza e dell’elmo di acciaio lo avevano completamente sopraffatto, ed era caduto pesantemente sul pavimento di pietra sbucciandosi le ginocchia e ammaccandosi seriamente le nocche della mano destra.

     

    Dopo questa disavventura si ammalò gravemente per diversi giorni e non abbandonò la propria stanza se non per tenere in efficienza la macchia di sangue. Alla fine però, a forza di curarsi, si rimise in salute e decise di compiere un terzo tentativo per spaventare il ministro degli Stati Uniti e la sua famiglia. Scelse il 17 di agosto, che cadeva di venerdì, per fare la sua comparsa, e passò quasi l’intera giornata a rivedere il proprio guardaroba.

    Infine la sua scelta cadde su un grande cappello con la tesa all’ingiù ornato di una piuma rossa, di un sudario sfrangiato ai polsi e al collo, e di una daga arrugginita. Verso sera scoppiò un violento temporale accompagnato da pioggia, e il vento era così furibondo che tutte le porte e le finestre del vecchio castello tremavano con gemiti e scricchiolii paurosi. Era un tempo infernale, proprio come piaceva a lui. Il suo piano d’azione era il seguente: sarebbe entrato pian piano nella camera di Washington Otis, gli avrebbe borbottato parole sconnesse dai piedi del letto, poi si sarebbe pugnalato per tre volte alla gola al suono di una musica in sordina. Nutriva contro Washington un rancore particolare, sapendo perfettamente che era lui a togliere ogni giorno la famosa macchia di sangue dei Canterville, grazie a quel suo maledetto Detersivo Incomparabile Pinkerton. Dopo aver ridotto in uno stato di indicibile terrore quel giovane incosciente e scapestrato, sarebbe passato nella stanza occupata dal ministro degli Stati Uniti e da sua moglie, dove avrebbe posato sulla fronte della signora Otis una mano umidiccia, mentre avrebbe sibilato nelle orecchie del suo tremebondo marito gli orrendi segreti della cappella mortuaria. In quanto alla piccola Virginia non aveva ancora deciso sul da farsi.

     

    In fondo essa non lo aveva mai né offeso né insultato, ed era graziosa e gentile. Pochi gemiti cavernosi dal guardaroba, pensò, sarebbero stati più che sufficienti, oppure, se non fosse riuscito a svegliarla, le avrebbe grattato la trapunta del letto con dita tremanti di paralisi. Ai gemelli, invece, era ben deciso a impartire una lezione coi fiocchi. Per prima cosa, naturalmente, si sarebbe seduto sui loro stomachi, in modo da provocare la sensazione soffocante dell’incubo. Poi, dato che avevano i letti vicini, si sarebbe messo in mezzo assumendo l’aspetto di un cadavere verde e freddo come il ghiaccio, finché quelli si fossero sentiti immobilizzati dal terrore, e infine avrebbe gettato il sudario e si sarebbe messo a strisciare per la stanza con ossa calcinate e un’unica pupilla roteante, nella personificazione di “Daniele il Muto”, ovvero “Lo Scheletro del Suicida”, “rôle” nel quale più di una volta era stato di effetto strepitoso e che egli considerava in tutto e per tutto eguale alla sua celebre creazione di “Martino il Maniaco”, ovvero il “Mistero Mascherato”.

     

     

    Alle dieci e mezzo udì la famiglia che andava a coricarsi. Fu disturbato per un certo tempo da urla e sghignazzate selvagge -i gemelli, naturalmente, i quali si stavano certamente divertendo prima di mettersi a dormire -ma alle undici e un quarto tutta la casa era immersa nel silenzio, e come scoccò la mezzanotte egli uscì dal suo rifugio. Il gufo picchiava il suo becco adunco contro le invetriate, il corvo gracchiava appollaiato in cima all’antico tasso, il vento errava gemendo attorno al castello come un’anima in pena, ma la famiglia Otis dormiva, inconsapevole della propria sorte, e alto sopra i rumori della pioggia e della tempesta il fantasma poté distinguere il sonoro russare del ministro degli Stati Uniti. Emerse cautamente dal pannello di legno che rivestiva la parete, con un sorriso malvagio sulla bocca avvizzita e crudele, e la luna si nascose la faccia dietro ad una nuvola mentre egli passava davanti al finestrone dove le sue insegne e quelle di sua moglie assassinata splendevano in campo azzurro e oro. Avanti, avanti; egli procedette, scivolando silenzioso come un’ombra malefica, e la stessa tenebra parve inorridire al suo passaggio. Ad un certo momento gli sembrò di udire un appello lontano, e si fermò, ma non era che l’abbaiare di un cane della Cascina Rossa, ed egli riprese ad avanzare, borbottando strane maledizioni del sedicesimo secolo e brandendo di quando in quando la daga rugginosa nell’aria notturna. Giunse infine all’angolo del corridoio che conduceva nella camera dello sfortunato Washington.

     

    Sostò per un istante: il vento gli faceva svolazzare intorno al capo le lunghe ciocche grigie, e scompigliava in pieghe fantastiche, grottesche, l’orrore senza nome del suo sudario.

     

    Quindi la pendola suonò il quarto ed egli comprese che l’ora era venuta. Ridacchiò tra sé, lugubremente, e svoltò l’angolo; ma subito cadde all’indietro con un gemito spaventoso di lamento e si nascose la faccia sbiancata tra le mani lunghe e ossute. Proprio davanti a lui si ergeva uno spettro mostruoso, immobile come un’immagine scolpita e allucinante come il sogno di un pazzo.

     

    Aveva il cranio calvo e lucido, e un riso osceno pareva gli avesse distorto i lineamenti in un ghigno perpetuo. Dagli occhi uscivano bagliori di luce scarlatta, la bocca era un vasto gorgo di fuoco, e un lenzuolo ributtante, simile al suo, ammantava delle sue nevi silenti le forme titaniche. Sul petto recava una scritta vergata in caratteri antichi, un cartiglio d’infamia, pareva, chissà quale testimonianza di peccati orrendi, quale spaventoso calendario di delitti, e alto nella mano destra impugnava un falcetto d’acciaio scintillante.

     

    Non avendo mai visto uno spettro in vita sua, era troppo logico che il povero fantasma ne fosse terribilmente spaventato, e dopo un’altra fuggevole occhiata alla paurosa apparizione, fuggì precipitosamente nella propria stanza, inciampando nel sudario mentre correva lungo il corridoio, e alla fine lasciò cadere la spada negli stivaloni da caccia del ministro, dove fu trovata dal maggiordomo l’indomani mattina. Una volta al sicuro nel segreto del proprio appartamento, si lasciò cadere sul letto, un modesto pagliericcio, e nascose la faccia sotto le coperte. Dopo qualche tempo, l’antico spirito dei Canterville ebbe infine il sopravvento in lui, ed egli decise che sarebbe andato a parlamentare con l’altro fantasma non appena fosse spuntata l’alba. Perciò, proprio mentre l’aurora stava tingendo d’argento le cime dei colli, ritornò nel punto in cui i suoi occhi si erano posati per la prima volta sulla truce apparizione, poiché aveva riflettuto che, dopo tutto, due fantasmi valgono meglio di uno solo e che forse, con l’aiuto del suo nuovo amico, avrebbe potuto agire con maggiore efficacia contro i gemelli. Come fu giunto all’angolo del corridoio, uno spettacolo terribile si offrì alla sua vista.

     

    Qualcosa doveva certamente essere accaduto allo spettro, perché la luce era del tutto scomparsa dalle sue occhiaie vuote, il falcetto luccicante gli era caduto di mano, ed esso se ne stava poggiato contro il muro in una postura molto scomoda ed innaturale. Il fantasma diede un balzo e lo afferrò tra le braccia; ma, con suo grande orrore, la testa si staccò dal busto e scivolò a terra, il corpo assunse una posizione recline, ed egli si trovò a stringere una tenda da letto in cotonina bianca, con una scopa, un coltellaccio da cucina, e una zucca vuota ai piedi.

     

    Incapace di comprendere questa strana trasformazione, s’impadronì con ansia febbrile della scritta misteriosa ed ecco che nel grigio chiarore del mattino poté leggere queste inquietanti parole:

     

    Continua … leggi qui la seconda parte

     

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