• Resistere all’«aria del tempo» con Luigi Scialanca

      0 commenti

    di Gian Carlo Zanon

    Avvertenza:

    per rendere più comprensibile questo testo e per non confondersi sulla paternità delle citazioni, ho messo tutte le citazioni appartenenti a Luigi Scialanca tra «caporali»  e tutte le altre citazioni tra “virgolette” e in corsivo.

    “È noto ormai fino alla noia, infatti, e per esplicita dichiarazione dello stesso Dick, che tutta la sua narrativa è fondata su due domande fondamentali: “che cosa è reale” e “che cosa è umano?”.

    A. Caronia, D. Gallo: Philip K. Dick, La macchina della paranoia, enciclopedia dickiana (1)

    Scriveva Gramsci in una sua recensione: “Luigi Pirandello è un “ardito” del teatro. Le sue commedie, sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori (…)”

    Ho appena finito di legg… di studiare il grande e importante saggio di Luigi Scialanca, Amleto e Holden, che mi ha fatto scoppiare tante piccole bombe nella mente. Queste bombe illuminanti, queste “luccicanze”, che aprono varchi nel non ancora esplorato, mi hanno permesso di comprendere molto più profondamente le due opere, mi hanno suscitato miriadi di nessi e hanno messo in moto la mia memoria… perché le storie romanzesche dei due protagonisti mi e ci appartengono intimamente.

    Mi chiedo da dove cominciare per mettere ordine a questo kaos intellettivo generato dalla dialettica tra questa opera, tanto meravigliosa quanto, per me, impegnativa, e il mio pensiero in movimento che trova, ora, nel momento in cui inizio a scrivere, forma in decine di appunti scritti a margine man mano che leggevo il saggio.

    Ma prima di lasciarmi andare alla scrittura vorrei cercare di sintetizzare la poetica di Luigi Scialanca rubando le parole che Jean Daniel ha scritto in un piccolo saggio dal titolo Resistere all’«aria del tempo» con Camus. Cito: “Ma noi sappiamo anche, e con uguale intensità, che certi uomini, loro sì, arrivano a dare un senso alla propria vita in alcune circostanze privilegiate. Quando amano e quando creano. Quando riescono a discernere  fulmineamente qualcosa che assomiglia al Bene, al vero e al Bello. Quando sono abbastanza felici da avere il desiderio di proteggere gli istanti di felicità degli altri”.

    Ecco… e ora inizio dalle prime pagine anticipandole con una citazione colta da I limoni di Eugenio Montale

    “(…) Vedi, in questi silenzi in cui le cose/ s’abbandonano e sembrano vicine/ a tradire il loro ultimo segreto,/ talora ci si aspetta/ di scoprire uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,/ il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità. (…)”

     “The time is out of joint” è una frase che Amleto pronuncia alla fine del primo atto, «che letteralmente significa – scrive l’autore – il tempo [l’epoca nostra] è fuori dai cardini».  

    Questo verso, che struttura tutto il saggio, sottolinea il malessere di Amleto provocato dalla comparsa del fantasma del padre. Il fantasma, che rivela la verità sul proprio assassinio, è “l’anello che non tiene”. La rottura dell’anello, che teneva intatto il concatenarsi delle menzogne, crea uno spiraglio grazie al quale il protagonista è gettato di colpo “nel mezzo di una verità”: ciò che Amleto avvertiva sulla pelle, ancor prima dell’apparizione del fantasma, trova conferma, e, come accade nel teatro delle marionette nel romanzo Il fu Mattia Pascal di Pirandello cade il cielo di cartapesta che copriva la realtà vera.(2)

    «Le “messinscene”, i “paramenti” e “le bardature” che nel mondo “fuor di sesto” simulano gli affetti perduti, corrispondono (tre secoli dopo) alla falsità, all’ipocrisia e alla stupidità a cui Holden Caulfield, nel suo gergo adolescenziale, si riferisce con la parola “fasullo” (phony)».

    Per Holden invece è il “tradimento” di Jane che mette in crisi definitivamente il suo rapporto col mondo dei fasulli: «“Per poco non cadevo morto”, “ero in ebollizione”, “ero proprio in ebollizione, sul serio”, “era una cosa che non mandavo giù”, “mi venne un nervoso tale che per poco non ammattivo.» Venire a conoscenza che Jane – che lui amava, e con cui aveva stabilito un reale rapporto umano, nella quale aveva in qualche modo alienato la propria immagine interna –  avesse un rapporto con  una persona così disumana come Stradlater, lo fa “svanire”. La sua immagine era lì, dentro di lei e lei l’ha annichilita, e lui non si ritrova più

    Verità e realtà

    “Dì tutta la verità ma dilla obliqua (…) la verità deve abbagliare gradualmente/ o tutti saremmo ciechi” Non sono mai riuscito a decifrare in modo soddisfacente questo verso della poesia (1129) di Emily Dickinson, ma ora mi sembra di comprenderlo meglio… e lo lego ad un altro verso, questa volta di Montale: “il cuore che ogni moto tiene a vile/ raro è squassato da trasalimenti./ Così suona talvolta nel silenzio/ della campagna un colpo di fucile.”

     

    Molti di noi, avranno un ricordo in cui un accadimento, spesso apparentemente banale, giunse come un fulmine a ciel sereno. Quel fatto venne avvertito come quando nel silenzio assoluto “suona nella campagna un colpo di fucile” e,  “il cuore che ogni moto tiene a vile”, ebbe un movimento repentino che ci costrinse a velare verità accecanti a cui spesso, purtroppo, opponemmo un annullamento che ci ha impedito di “elaborare un lutto”, impedito di pensare a una separazione che, forse, al momento non eravamo in grado di sostenere. … scusate il noi del plurale maiestatis… diciamo che a me è successo. E lì c’è un primo guado non superato. Scatta il “io non posso”. E si ritorna vigliaccamente sui propri passi… si ritrae il piede pavido dalla “soglia dell’invisibile”, dalle «soglie dell’adolescenza».(3)

     

    La soglia che si apre di fronte ad Amleto, a Holden, e a tutti gli adolescenti che devono “entrare nel mondo degli adulti”, è quella descritta da Amleto nel famoso monologo: “Essere, o non essere, è questa la questione: se sia più nobile nella mente soffrire colpi di fionda e dardi d’atroce fortuna o prender armi contro un mare d’affanni e, opponendosi, por loro fine?” 

    Por fine a che cosa? A cosa devono por fine tutti gli Amleti del mondo? Ma certamente al dissesto  della realtà affettiva, umana, famigliare e sociale a cui ci si sente – non fosse altro per salvaguardare la propria realtà umana – destinati a  riemetterla nei cardini dell’umano o maledetto dispetto della sorte che io sia nato per rimetterlo in sesto”.

    Ma per rimettere in sesto il mondo, messo fuori dai cardini dalla realtà fasulla costruita con un «inattaccabile amalgama di verità e di menzogna» e tenuta in essere attraverso “messinscene”, “paramenti” e dalle “le bardature” che nel mondo “fuor di sesto” simulano gli “affetti perduti”,è necessario immergersi nel “paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno».  “Paese inesplorato” che non è l’oltre/morte ma la realtà umana inconscia che perturba tutti, o quasi tutti, gli adolescenti incapaci di vedere con chiarezza l’invisibile che si torce attorno a loro e dare un nome a ciò che sentono. Una realtà umana sconosciuta che “sconcerta la volontà e ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti? Così la coscienza ci rende tutti codardi, e così il colore naturale della risolutezza è reso malsano dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e momento per questa ragione deviano dal loro corso e perdono il nome di azione.”

    L’autore segue passo passo l’evolversi della realtà umana del personaggio shakespeariano, che passa da quella che potremmo chiamare depressione dovuta allo stridio tra ciò che sente inconsciamente e ciò che la ragione gli suggerisce: egli sa che «chi si avventura fuori dell’ordine razionale che controlla l’individuo e lo Stato, qualunque sia l’ordine e chiunque lo incarni, è pericoloso per sé e per gli altri»

    In questa descrizione dell’animo del principe non c’è più quella sofferenza, quella depressione che confonde la mente presente all’inizio del dramma. Infatti, in quel caso la sua tristezza era più che lecita, visto che la madre, in maniera molto anaffettiva e indifferente aveva sposato il cognato pochi giorni dopo la morte del marito senza neppure elaborare il lutto o preoccuparsi per il dolore del figlio; ma dal momento dell’incontro con lo spettro in poi Amleto non è più triste, egli assume un atteggiamento mentale razionale, freddo, lucido e quindi violento.

    …Si, povero spettro, fino a quando la memoria ha uno spazio in questo globo impazzito. Ricordami di te. Ecco, dalla tavola della mia memoria scancellerò ogni sciocca banale annotazione, tutte le massime dei libri, tutte le forme, tutte le impressioni trascritte dalla giovinezza e dall’osservazione e il tuo comandamento vivrà da solo nel libro della mia mente senza essere mischiato a materia più vile.

    Tra ciò che, per lui, è “materia vile” c’è la donna: “Fragilità il tuo nome è donna” dice Amleto già nel primo atto. Da queste parole si comincia a notare la trasformazione affettiva che egli subisce e che influirà sul suo atteggiamento per tutta la durata dell’opera: il suo scopo dichiarato è quello di annullare tutti i sentimenti e gli affetti umani per dedicarsi anima e corpo alla vendetta del padre.

    Da questo momento Amleto sarà sopraffatto dalla pazzia: egli pensa ossessivamente a vendicare padre;  la vendetta è l’unico aspetto della realtà che per lui esiste, tutto il resto o viene annullato o passa in secondo piano. Ed è proprio Ofelia a subire le conseguenze di questa rottura affettiva con il mondo da parte del principe: da ora in poi quest’ultimo cambierà atteggiamento verso tutti i personaggi ed in particolare verso di lei perché egli ha rinunciato all’immagine femminile: «(…) Amleto impazzisce quando non ama più Ofelia.»

    Nella malattia in cui viene spinta Ofelia vediamo tutta la tragedia di una vita ormai distrutta. Amleto né è stato l’artefice: invece di difendere quest’immagine femminile dagli intrighi della corte ed ascoltare i suoi affetti, l’ha ingannata, disillusa e oltraggiata: “Io non vi ho mai dato niente”, “Io vi ho amato una volta”, “Io non vi amavo”». Queste parole che Amleto rivolge ad Ofelia nel celebre incontro nel III° atto dimostrano come egli sia assolutamente crudele e di come, in modo schizofrenogeno, voglia, più o meno conscuiamente, confondere e scindere il pensiero della ragazza.

    Amleto, dopo il colloquio con lo spettro del padre, ha una profonda indifferenza per il mondo affettivo della ragazza e verso i sentimenti che ella prova per lui; egli però non è stato sempre così, è lei stessa a darci l’unica immagine di un Amleto pieno di affetti positivi: “…Oh, che nobile mente è qui caduta! L’occhio, la lingua, la spada del cortigiano, del soldato, del dotto, la speranza e la rosa del dell’ordinato stato, lo specchio della moda e il modello della forma, l’oggetto osservato da tutti gli osservatori, è caduto, caduto! E io, la più triste e sventurata delle donne che succhiai il miele dei suoi voti musicali, vedo ora quella sovra e nobile ragione che, come dolci campane aggrovigliate stride fuori tempo, e quella forma impareggiabile, quel ritratto di gioventù fiorente incenerito dalla pazzia. O misera me, che ho visto quel che ho visto, vedo quel che vedo.”

    Questo stridore ricorda anche i pensieri sull’assurdo di Camus. Assurdo che nel suo significato originario sta a significare una dissonanza, una discordanza nella realtà, un fuori tono.

    Come dicevamo Amleto era dunque un ragazzo affettivo e noi in questi splendidi, e allo stesso tempo tragici, versi di Ofelia, troviamo tutta la genialità di William Shakespeare il quale ha descritto ed intuito quel passaggio dallo stato mentale sano allo stato mentale malato. Amleto non ha lasciato nessuno spiraglio all’amore, che lui provava per lei e che lei provava per lui. Purtroppo Ofelia non è riesce a rifiutarlo e a difendersi dalla sua anaffettività nonostante si sia accorta della sua malattia.

    Ed è su questo che è incentrata la tragedia: sulla realtà psichica del protagonista che si deteriora, sulla perdita di ogni emozione. Egli crede ormai soltanto alla ‘divina ragione’ e nega la donna:

    “…Che capolavoro è l’uomo, com’è nobile nella ragione, com’è infinito nelle sue facoltà, com’è preciso e ammirevole nella forma e nel movimento (…) Eppure… l’uomo non mi diletta più, e nemmeno la donna” (II. 2)

     Perduta l’immagine femminile interna nulla ormai ha valore per lui, tutto è disgustoso… le passioni sono disgustose. Anche poco prima di morire Amleto non ama nessuno, non ricorda e non prova nessun sentimento verso la madre, verso Ofelia e nemmeno verso il padre, muore senza turbamento, muore come nei suicidi fatui degli schizofrenici; egli non è sconvolto né dispiaciuto; per tutta la durata dell’opera è stato incapace di mantenere rapporti autentici, sapeva, in ogni scena, esattamente quale atteggiamento assumere di fronte agli altri. La sua vita era entrata a far parte di quel mondo “fuori sesto” in cui ognuno recita la sua parte. Egli riesce a fingere in ogni istante, la sua simulazione non gli genera nessun conflitto ed è completamente preso da un’idea costante e «prevalente»: vendicare il padre… costi quel che costi in termini di perdita di umanità.


    Ma prima di perdere l’autenticità, che lo rendeva vulnerabile ma umano, Amleto era capace di amare, aveva “una nobile mente”  come ricorda Ofelia.

    Già dal secondo atto però «(…) le proprie elucubrazioni» lo stanno «allontanando dalla sensibilità originaria» e «Amleto comincia a smarrirsi nel labirinto mentale da cui l’inconsapevole sottomissione all’odio, alla stupidità e alla violenza»

    La trasformazione regressiva, più e più volte sottolineata da Luigi Scialanca, è il leitmotiv che pulsa in tutto il saggio a sottolineare come la naturale umanità degli esseri umani possa essere travolta durante l’adolescenza se la certezza/speranza dell’umanità dell’altro da sé, con cui nascono tutti gli esseri umani, viene incrinata già nei primi giorni e mesi di vita: «Volle (Shakespeare) proporre ai contemporanei e ai posteri un personaggio (Amleto) in cui l’essere umano non è disumano fin dall’inizio, fin dalla nascita, ma lo diventa.»

    Questa violenta disumanizzazione “storica” viene sottolineata dall’autore anche in un suo saggio, dal titolo Ricordi Immaginari – Spiegare un Film a un Bambino: Shining pubblicato nel suo sito: «È così che quelli che non rimangono umani si “riproducono” e creano i propri successori, i disumani del futuro: abbandonando, ingannando e maltrattando i bambini. Ed è così che a poco a poco, attraverso i secoli e i millenni, accumulano l’immenso “patrimonio” di orribili eventi che pesa su ogni nuova generazione; del quale i piccoli apprendono l’esistenza dai libri di Storia (o da ciò che con i propri occhi vedono accadere intorno a sé); e che ad alcuni di essi ― dopo che con l’abbandono, con l’inganno o con le percosse ne sia stata spezzata la naturale resistenza ― viene imposto di far proprio e incrementare.»*

     

    Anche il principe di Danimarca, ci dice l’autore, probabilmente ha avuta “un’infanzia schifa”  come quella di Holden: «La tragedia di Amleto, dunque, è la tragedia di ogni generazione il cui mondo è stato capovolto, disumanizzato. Di ogni generazione i cui padri e le cui madri non hanno cercato di raddrizzarlo, o hanno cercato e hanno fallito. Di ogni generazione il cui compito è quello di non fallire a propria volta. La tragedia di Amleto, invero, non è diversa dalla tragedia di ogni generazione di cui gli storici ci hanno dato notizia. Compreso la mia, la tua e , come vedremo, quella di Holden. (…) Eppure, lui stesso lo dice, da bambino amò il giullare, se non come il padre certo tantissimo. Ma proprio questo gli è accaduto, questo è quel che Shakespeare  ha inteso mostrare e narrare al suo pubblico, questa è la vera pazzia e la vera tragedia di Amleto: perdere l’umanità della nascita uniformandosi a disumano ordine danese» ossia alla realtà sociale “fuori dai cardini”, scollegata dall’umano, scissa, schizofrenica.

    «Tutt’e due – Amleto e Holden – affrontano la medesima stupidità, la medesima ipocrisia, e le medesime ingiustizie (…) Tutt’e due soffrono l’inettitudine dei padri, delle madri, dei maestri»

    Tutt’e due  affrontano il periglioso guado dell’adolescenza, ovvero il confine tra la visione dell’altro da sé e il rapporto sessuale con l’altro da sé, uguale dal punto di vista umano ma diverso dal punto di vista fisico. Affrontano il guado tra un prima e un dopo psicofisico: la pubertà. Tentano di attraversare quel guado che potrebbe essere l’ultimo e certamente il più pericoloso dove i più vengono travolti  e trascinati dall’“aria del tempo” che li intossica e li determina. In quel frangente i peggiori si trasformano in guardiani che impongono l’obolo di una “libbra di carne” psichica senza la quale… i migliori si salvano perché hanno conservato dentro se stessi un’immagine valida dell’altro da sé, come accade al protagonista del film Truman Show di Peter Weir… di cui parlerò nelle conclusioni.

    Il giovane Holden

    I protagonisti dei romanzi di Philip Dick vivono spesso ciò che l’antropologo Ernesto De Martino chiamò “crisi della presenza”, ovvero un dramma esistenziale, con conseguenze psichiche, in cui l’essere umano perde il proprio orientamento, la propria “anima”, ossia la propria realtà psichica immateriale. «Sulla storia di Holden (…) così come in quella di Amleto, (…) oltre la drammatica incertezza di ogni adolescenza, incombe il tragico pericolo di “sparire”»

    Amleto e Holden vivono nel terrore che la propria “esistenza/presenza” “venga ghermita da altri” sparisca. Penso che in psicologia tutto ciò si chiami “derealizzazione”. Ed è ciò che accade a Holden, quando scendendo da “quel maledetto marciapiede” per attraversare la strada, si sente svanire: “Mi pareva che avrei continuato ad andare giù, giù, giù e che nessuno mi avrebbe più rivisto”.

    «Una sparizione che allude, fin dalle prime pagine, al tema fondamentale de Il giovane Holden: gli esseri umani, già da bambini, e poi sempre più a mano a mano che s’inoltrano nell’adolescenza, rischiano di perdersi nel nulla, di diventare “fasulli”. È questo il mondo “out of joint” di Holden: lui non lo chiama così, ma come la Danimarca di Amleto è un mondo in cui è difficilissimo rimanere umani»

    C’è il rischio di “sparire” perché i “fasulli”, più o meno inconsciamente, aggrediscono la realtà umana dei “sopravvissuti al modo fuori sesto” con la pulsione che “fa sparire”:

    Le lettere al mondo

    “Questa è la mia lettera al mondo/ Che mai non scrisse a me – (…)” (441)

    “(…) Ciascuno mi saluta passando,/ ed io, le mie piume infantili/ sollevo, in dolente risposta/ ai loro tamburi sbadati – (…)” 348

    Questi pochi versi tratti da due poesie di Emily Dickinson ci parlano della pulsione di annullamento agita contro di lei: non è lei a confidare i suoi messaggi a “mani che non vedo”, sono le mani dei “fasulli” che, “sbadatamente”, si sottraggono ai suoi messaggi. Lei non vede quelle mani perché sono sparite nel “non essere”. Anche lei, come nelle intenzioni di Salinger e Shakespeare, scrive lettere per “rimettere il mondo in sesto” ma viene sempre delusa: 

    «Cadde tanto in basso – nella mia considerazione -/ che lo udii battere in terra -/ e andare in pezzi sulle pietre/in fondo alla mia mente – // ma rimproverai il fato che lo abbatté – meno/ di quanto denunciai me stessa,/ per aver tenuto oggetti placcati/ sulla mensola degli argenti –» (747)

    A quanto pare, però Emily Dickinson non si perse, anche perché si esiliò nella sua camera in cui passò gran parte della sua vita:  gli studi di Emily Dickinson non furono regolari e le sue amicizie furono scarse. Durante gli anni delle scuole superiori decise, di sua spontanea volontà, di non professarsi pubblicamente cristiana. Il padre decise di farle abbandonare il College femminile per evitarle non precisati “problemi di salute”. Anch’egli, come tutti coloro che annullarono il suo talento, tentò in tutti i modi di tarparle le ali: “Mio padre è troppo impegnato con le difese giudiziarie per accorgersi di cosa facciamo. Mi compra molti libri ma mi prega di non leggerli perché ha paura che scuotano la mente” scrisse in una lettera.

     

    Anche Holden ha problemi con la scuola. Viene espulso tre volte e lo troviamo dopo che è fuggito dalla quarta scuola: «poiché, nelle scuole, chi non si fa espellere viene “forgiato”, diventa un “fasullo”, muore ancora vivo».

    Ma Holden lo sa che quelle scuole “non forgiano un accidente”, e quindi non si adatta, non si fa ammaestrare… ma la fuga non funziona fino in fondo perché, egli si ritrova sempre in mezzo al guado, sempre nel dubbio: non essere e tornare, a “l’inganno consueto”, o essere e buttare il cuore nel “paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno”, col rischio di entrare in “un’aria di vetro” che fa “svanire”, con il terrore di rivolgersi e vedere “il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro/ di me, con un terrore da ubriaco”.

    L’autore usa le simbologie di questa  poesia di Montale per mostrare fino in fondo il dramma che sta attraversando un ragazzo sedicenne stritolato da un mondo uscito dai cardini dal quale vorrebbe uscire cercando umanità… ma tranne la sorellina, “la vecchia Phoebe”, tutti in un modo o nell’altro lo deludono.

    “Avevo una ghinea d’oro –/ La persi nella sabbia –/ e nonostante la somma fosse modesta/ e il paese fosse ricco-/ tuttavia, aveva un tale valore/ al mio occhio frugale –/ che quando non la ritrovai –/ mi sedetti e mi lamentai. (…)” Emily Dickinson  (23)

    «Ma Holden – scrive Scialanca – ha un solo problema, quello a cui l’umanità di ogni ragazzo, intatta o quasi, va incontro dinanzi all’umanità più o meno sciupata di tanti adulti: non diventare altrettanto insensibile, instupidito, “fasullo”. E il problema di noi lettori, il nostro ruolo nel romanzo, è quello di non cadere, nei confronti di Holden, nell’odio e nel disprezzo che ogni essere umano, da bambino e da giovane, subisce da ogni adulto che si è lasciato indurre a tradire se stesso perdendo i “soldi propri”, (le ghinee di E.Dickinson NdR) consegnando ad altri la propria storia e scomparendo».

    «Ho sempre avvertito la  perdita di qualcosa – /la primissima sensazione che ricordo è una privazione  – di cosa non sapevo –/ Troppo giovane perché chiunque sospettasse/ una dolente fra i bambini/ ciò nondimeno mi aggiravo/ come chi rimpianga un regno/ essendo il solo principe cacciato –(…)» Emily Dickinson (959)

    Non sono gli adolescenti che sbagliano, non è Holden che sbaglia. Come ci avverte Italo Calvino nel suo libro Le città invisibili“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

    Gli fa eco l’autore «(…) per Holden e noi (anche se non ce ne avvediamo, non lo capiamo, non sappiamo verbalizzarlo a noi stessi) sentire di non essere “gli eroi della nostra storia”, di non aver più “soldi nostri”, di “sparire attraversando la strada”, non è individuale, è universale: l’aria in cui tutti siamo immersi è questa, è il gelo a cui resistiamo raddrizzando “il mondo fuori sesto” o soccombiamo diventandone parte. È il medesimo problema che si poneva Amleto chiedendosi se “sia più degno essere o non essere”: come difenderci, come salvarci dal disumano che imperversa su di noi?»

    Holden inconsciamente sa/sente che l’unico modo per non diventare “fasulli” è avere un rapporto sessuato con una donna, una adolescente come lui: “Ero arrivato sul serio a conoscerla proprio intimamente, . Non dico che ci fosse qualcosa di fisico o che so io – non c’era niente –  ma ci vedevamo tutto il tempo. Non c’è bisogno di darsi al sessuale per conoscere intimamente una ragazza”.

    Holden sembra avere le idee chiare, che però non trovano riscontro in quel mondo in cui «(…) le ragazze “svaniscono”, corpi disumanizzati, chimere di carne, per “forgiare” un mondo “fuori di sesto”, senza donne, in cui i ragazzi come Holden (…) devono uniformarsi a sottomettersi a loro»… a loro, ai “fasulli”.

    Pur confuso sulla sessualità, come sono confusi tutti gli adolescenti, egli non è scisso, e quindi non è violento, non ha bisogno della [legge sul consenso libero e attuale] per sapere quando fermarsi. Ma il fatto che egli si fermi al primo NO lo rende insicuro, perché “un vero maschio”, dice la cultura machista, mica si deve fermare al primo NO!

    “Il fatto è che quando state proprio lì lì per farlo con una ragazza, quella continua a dirvi tutto il tempo di smettere. Il mio guaio è che smetto. C’è tanti che non smettono mica. Ma è più  forte di me. Non capite mai se quelle vogliono veramente che smettiate, o se hanno soltanto una paura d’inferno, o se vi dicono di smettere solo perché se voi continuate la colpa è vostra e non loro. Io smetto tutte le volte, ad ogni modo. Il guaio è che a un certo punto mi fanno pena. La maggior parte delle ragazze sono così sceme e tutto quanto, voglio dire. Dopo un po’ che pomiciate con loro, potete proprio vederle che perdono la testa. Fate conto, una ragazza, quando diventa proprio appassionata, la testa se l’è bell’e persa. Io non lo so. Loro mi dicono di smettere e io smetto. Dopo che le ho riportate a casa mi mordo sempre le mani, ma continuo a smettere ogni volta”

    Una grande lezione di umanità… confusa dalla cultura tossica del maschilismo di cui anch’egli è comunque intossicato. «La “presa” di Holden sulla realtà umana è nelle sue sensazioni, è nel suo ateismo corporeo. Sa molto poco, ancora, ma il suo sentire è intatto»… e lui cerca di guadare lo Stige, il fiume che rende insensibili al dolore, per salvare l’immagine femminile, ovvero la propria sensibilità.

    Ma interviene la cultura che gli dice che lui “è sbagliato”: “Con una ragazza, se non mi piace proprio tantissimo, non riesco a diventare sessuale: dico, veramente sessuale. Deve proprio piacermi moltissimo, voglio dire. Se no me lo perdo, il mio dannato desiderio per lei. Ragazzi questo rovina la mia vita sessuale in modo terribile. La mia vita sessuale fa schifo”.

    La sua vita sessuale non fa schifo, fa schifo quella dei suoi compagni di scuola che si vantano di “stantuffare” ogni ragazza che capita a tiro. Sono loro ad aver una vita sessuata “da schifo” perché sono violenti. Holden invece si innamora “ogni volta che fanno una cosa carina (…) finisce che te ne innamori e allora non sai più dove diavolo ti trovi”.

    «Per Holden lasciare Pencey, – (la scuola da dove è fuggito N.d.R) – “attraversare la strada”, è partire in cerca di qualcuno allontanandosi da tutti, una ricerca piena di speranza e al contempo una fuga disperata dalle quali non è del tutto consapevole, e cercando e fuggendo avventurarsi in una solitudine in cui rischia di sparire fin dai primi passi . Se la ricerca fallisce, se la fuga prevale, per lui sarà la fine.»

    “Quando fui pronto per andarmene, con le valige e tutto quanto, mi fermai un momento vicino alle scale e diedi un ultimo sguardo a quel maledetto corridoio. Stavo quasi piangendo. Non so perché. Mi misi in testa il mio berretto rosso da cacciatore, girai la visiera dietro, come piaceva a me, e poi urlai con tutta la maledetta voce che avevo in corpo “Dormite sodo, stronzi!” Scommetto che svegliai tutti quei bastardi di tutto quel piano. Poi me la filai. Qualche idiota aveva buttato i gusci delle noccioline sulle scale, e per poco non mi ruppi ‘sto maledetto collo”

    Holden, come hanno fatto molti di noi, cerca senza saperlo l’antidoto per salvarsi dal «veleno che invece di curare rende la malattia più grave e, al limite, mortale: l’idea delirante – l’idea capovolta – che i bambini e i ragazzi si ammalino non per l’anaffettività, la stupidità, la pazzia degli adulti tra i quali hanno avuto la sventura di venire alla luce, ma per aver cercato “con ostinazione” qualcosa di diverso, qualcosa di umano.»

    Eppure “Potrebbe accadere che alcuni sentano il messaggio che non tutte le cose che non iniziano bene, finiscono male.” Così sta scritto nel libro Bambino donna e trasformazione dell’uomo che Massimo Fagioli pubblicò nel 1980 ovvero trent’anni dopo Il giovane Holden di Salinger.

    Luigi Scialanca ha affrontato due “mostri” letterari apparentemente lontani  «Ma ciò che soprattutto li avvicina, malgrado l’immensa distanza spaziotemporale e culturale che li separa, è la sfida mortale che affrontano: salvare la nascita per cui sono umani, o ridursi, come gli altri, ad aggredirla e annientarla» Questo è ciò che fissa il legame indissolubile, letterario e umano, tra Amleto e Holden che da decenni e secoli continuano a mandare lettere al “mondo fuori sesto” chiedendo una nemesis che rimetta nei cardini dell’umano l’intera umanità… lettere alle quali, finora, quasi nessuno risponde… eppure… “Mi fu dato dagli dei -/ quando ero bambina -/ Ci danno la maggior parte dei regali – sapete -/ Quando siamo nuovi – e piccoli/  lo tenni chiuso in mano -/ non lo posai mai -/ non osavo mangiare – o dormire -/per paura che sparisse/ Se sentivo la parola “ricchi” -/ correndo verso scuola -/ da labbra agli angoli delle vie -/ tenevo a bada un sorriso./ Ricchi! Ricca semmai ero io  -/ che portavo il nome d’oro – / e l’oro possedevo- in lingotti solidi -/ la differenza – mi rese audace” Emily Dickinson, (454)

    Concludo con Philip Dick

    Scrive Carlo Pagetti nell’introduzione al romanzo di Philip Dick Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? “Malgrado tutto, la crisi dell’umano, la deriva verso il disumano, le tentazioni del postumano si articolano lungo le tappe di un viaggio – compiuto da una parte da Rick Deckard, dall’altra da John Isidore – che recupera sembianze profondamente umane, i cui valori etici e angosce sentimentali trovano ancora, sia pure faticosamente, una loro rappresentazione letteraria: certo, distorta e incompleta, eppure ancora vicina alla meditazione umanistica del nihil humanum a me alienum puto.

    In questo romanzo di Philip Dick da cui è stato tratto Blade Runner – un collega del protagonista, che viene ferito gravemente da un androide, guarda caso, su chiama Dave Holden.

    Inoltre nel 1959 Dick pubblica Time Out of Joint: il titolo è ovviamente ispirato alla battuta dell’Amleto di Shakespeare (Atto I scena V). Da questo romanzo sono stati tratti almeno tre film tra cui Truman Show di Peter Weir (1988). Il titolo e i contenuti di questo romanzo hanno molto a che fare con la battuta di Amleto, di cui ho già accennato, che struttura il saggio di Luigi Scialanca.

    “Le cose non sono quelle che sembrano” afferma Ragle Grumm, protagonista di Time Out of Joint (Tempo fuor di sesto). E infatti alla fine scoprirà di essere il protagonista di uno show e di vivere in un mondo completamente “fasullo”. Il protagonista vive una realtà virtuale, e quindi “fuori sesto”, all’interno di un involucro da cui non può fuggire e che altro non è che un gigantesco set cinematografico con tanto di consigli per gli acquisti…

    In questi due romanzi, e nei film tratti da essi, i topoi dickensiani “sovvertimento della realtà”, e “disumanizzazione sociale”, sono immediatamente riconoscibili…  e ripetono i contenuti dell’Amleto e de Il giovane Holden in cui c’è un “mondo fuori sesto”  in quanto disumanizzato.

    Nei romanzi di Philip Dick accade sempre qualcosa che mette crisi la visione della realtà alterata: c’è sempre “un anello che non tiene” che apre dei fulminei spazi nell’‘aria del tempo” e che serve come scintilla per i successivi avvenimenti. Gli antichi topoi dell’epica e della tragedia greca, che prevedono un elemento dissonante che rompe l’equilibrio del mondo “fuori sesto”, sono giunti a noi inalterati. Succede  anche in The Truman Show, quando riappare “il fantasma del padre” che Truman credeva morto per causa sua ma che in realtà era solo un attore dello show.

    Nel film di Weir il protagonista alla fine esce dalla finzione grazie al ricordo di una donna che aveva continuato a serbare in sé. Il rifiuto di annullare l’immagine femminile gli permette di rimettere in sesto la realtà. O quantomeno la realtà che lo circonda.

    “Questa storia ci riguarda” (A. Camus) e quindi il “compito” dell’essere umano – scrive Gabriele Frasca nella  postfazione del romanzo – è quello “di ritrovare (…) gli anelli di congiunzione fra il mondo di partenza e quello d’arrivo. (forse solo Philip Dick, più di ogni altro, è stato in grado di svolgere la funzione di Calderón de la Barca, e allestire uno dopo l’altro scenari cangianti per l’altrimenti immutabile grande teatro del mondo”.

    È l’empatia, la fantasia, l’altruismo, la capacità di slanci, l’agire con sentimento, quel sentimento “che distingue l’umano dal non umano” osserva Dick, a rendere reale l’essere umano. Ma se un essere umano ha perduto queste caratteristiche specifiche dell’umano cosa rimane di lui… è solo apparenza? NO! allora cos’è? un androide? E se è un androide allora gli esseri umani possono essere sostituiti dall’intelligenza artificiale, ovvero da una entità cibernetica che, solo apparentemente, si rapporta all’umanità degli esseri umani?… mi sembra che ci sia un problema!  Problema che questi “scrittori distopici”hanno visto: hanno visto la deriva dell’umano decine di anni fa e hanno descritto la creazione di una realtà sociale anaffettiva e quindi inautentica, virtuale. Realtà sociale in cui l’apparenza vale più dell’essenza… dell’essere.Quell’“essere in assoluto” di cui parlava Hölderlin riferendosi a un’unità originaria, una perfetta fusione tra pensiero cosciente e inconscio. È l’utopia reale di un’armonia primordiale e assoluta, dove l’uomo può finalmente “abitare poeticamente la terra”.

    Nel romanzo citato di Dick i confini tra reale e irreale sono confusi,“fuori di sesto”: l’essere umano e l’androide non si distinguono. Questo perché negli androidi di ultima generazione – i Nexus-6 – sono stati inseriti ricordi e sentimenti e quindi tra un androide e un essere umano anaffettivo è difficile stabilire, con un test di reazione, chi sia umano e chi non lo sia. Rechel per esempio è un androide ma il suo grado di affettività dice il contrario: “Sono tutti uguali, pensò Isidore; sono tutti strani. Aveva questa impressione, anche se non riusciva a precisare cos’era che non andava. Era come se una particolare e malevola astrattezza pervadesse tutti i loro processi mentali”.

    Inoltre Isiddore pensa che soffrano di disfunzioni della vita emotiva, “appiattimento degli affetti si chiama”.

    È il nostro destino? Il mio certamente NO!

    Note

    (1) A. Caronia, D. Gallo: Philip K. Dick, La macchina della paranoia, enciclopedia dickiana

    (2) Nel romanzo “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello, Anselmo Paleari racconta al protagonista un fatto curioso visto casualmente al teatro delle marionette. Durante la rappresentazione dell’Orestea di Eschilo, il cielo di carta che serviva da fondale alla scena, si lacera. Il signor Paleari cerca di spiegare a Mattia Pascal come questo evento determini una improvvisa metamorfosi nel protagonista della tragedia eschilea: Oreste si trasforma in Amleto. Il principe di Micene, l’“eroe” che uccidendo la madre instaura definitivamente il patriarcato con le sue leggi scritte, (5) diventa il pallido Amleto, l’essere umano dal dubbio ossessivo. Nel teatrino delle marionette si determina inspiegabilmente la perdita di senso e la caduta di ogni certezza ontologica. Non sapremo mai cosa Pirandello abbia voluto rappresentare introducendo nella sua opera questo avvenimento ma possiamo tentare una interpretazione attribuendole un valore meramente euristico: è la scoperta delle “messinscene”, dei “paramenti” e delle “bardature” che nel mondo “fuor di sesto” nascondono l’inganno del teatro mundi in cui tutti recitano un proprio ruolo nel “gioco delle parti”.

    (3) Marlow il protagonista/narratore del romanzo di Conrad Cuore di tenebra, parlando del protagonista Kurtz descrive bene quanto possa essere pericoloso voler andar oltre i confini stabiliti dal mondo “fuori dai cardini”: “È il suo attimo estremo che mi pare di aver personalmente vissuto. È vero, lui aveva fatto l’ultimo passo, aveva superato la sponda mentre a me era stato concesso di ritirare il piede esitante. E forse in questo sta tutta la differenza: forse tutta la saggezza e tutta la verità e tutta la sincerità sono compresse nell’inapprezzabile momento in cui superiamo la soglia dell’invisibile”. Ecco che Marlow impersona il ruolo del Coro greco e porta lo spettatore/lettore alla catarsi, ovvero alla “giusta consapevolezza” dei limiti da non superare: superare la soglia dell’invisibile non è apprezzabile, è fuori portata dell’umano. L’uomo che sfida gli dei è “smisurato” e paga il fio della colpa. E se la colpa maggiore è, come dice Calderon de La Barca, la nascita …

    *https://www.scuolanticoli.com/cineforum/Shining.htm?fbclid=IwY2xjawOooxRleHRuA2FlbQIxMABicmlkETFBeWlxTVp3OFlrRjZKMmtUc3J0YwZhcHBfaWQQMjIyMDM5MTc4ODIwMDg5MgABHqIbr2m1jAHTSJ5LPA-3k_0DiVmQEHnad7dEMDanbP4Rxj1BddoB8To0Bkrt_aem_h6UzLdwQoYhrAPJRTKZJVg

    Scrivi un commento