• Una stagione all’inferno … Arthur Rimbaud (3)

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     Deliri I.

    Vergine folle

    Lo Sposo Infernale

     

    Ascoltiamo la confessione di un compagno d’inferno: “Oh Sposo divino, mio signore, non rifiutate la confessione della più triste delle vostre ancelle. Sono perduta. Sono ubriaca. Sono impura. Che vita!
    “Perdono, divino Signore, perdono! Ah! perdono! Quante lacrime! E ancora quante lacrime più tardi, spero!
    “Più tardo conoscerò il divino Sposo! Sono nata sottomessa a Lui. – L’altro può anche picciarmi, adesso!
    “Per ora, sono in fondo al mondo! Oh amiche mie!… no, amiche no… Mai simili deliri e torture… Che idiozia!
    “Ah! io soffro, grido. Soffro davvero. Eppure tutto mi è lecito, gravata dal disprezzo dei cuori più spregevoli.
    “Insomma, eccovi questa confidenza, salvo ripeterla altre venti volte, – non meno squallida, altrettanto insignificante!
    “Sono schiava dello Sposo infernale, di colui che ha dannato le vergini folli. Proprio lui, quel demonio. Non è uno spettro, non è un fantasma. Ma io che ho perso la saggezza, io che sono dannata e morta al mondo, – non mi uccideranno! – Come descriverlo? Non so più neanche parlare. Sono in lutto, piango, ho paura. Un po’ di refrigerio, Signore, se non vi dispiace, sì, se non vi spiace!

     

    “Sono vedova… – Ero vedova… – ma sì, fui molto seria, un tempo, e non ero nata per diventare scheletro!… Lui era quasi un bambino… Le sue delicatezze misteriose mi avevano sedotta. Per seguirlo, ho dimenticato ogni umano dovere. Noi non siamo al mondo. Vado dove va lui, è necessario. E spesso egli s’infuria contro di me, contro di me, povera anima. Demonio! – È un demonio, sapete, non è mica un uomo.
    “Dice: ‘Le donne non le amo. L’amore è da reinventare, si sa. Ormai loro non possono aspirare ad altro che a una posizione sicura. Conquistata la posizione, cuore e bellezza vengon messi da parte: non rimane che un freddo disprezzo, alimento del matrimonio, oggi. Oppure vedo delle donne con i segni della felicità, delle quali io avrei potuto fare buone compagne, subito divorate da bruti sensibili come roghi…’
    “Io lo ascolto mentre fa dell’infamia una gloria, della crudeltà una malìa. ‘Appartengo a una razza lontana: i miei padri erano scandinavi: si trafiggevano il costato, bevevano il proprio sangue. Mi farò tagli per tutto il corpo, mi farò dei tatuaggi, voglio diventare ripugnante come un Mongolo: vedrai, urlerò per le strade. Voglio diventare proprio pazzo di rabbia. Non mostrarmi mai dei gioielli, mi trascinerei e contorcerei sul tappeto. La mia ricchezza, la vorrei chiazzata di sangue dappertutto. Io non lavorerò mai…’ Molte notti, quando il suo demone mi ghermiva, rotolavamo insieme, lottavo con lui! – Le notti, spesso, si apposta ubriaco per le strade o nelle case, per spaventarmi a morte. – ‘Mi taglieranno il collo sul serio; sarà disgustoso.’ Oh! quei giorni in cui vuol camminare con l’aria del delitto!

     

     

    “A volte parla, in una sorta di tenero dialetto, della morte che fa pentire, degli infelici che sicuramente esistono, dei lavori penosi, delle partenze che straziano i cuori. Nelle bettole in cui ci ubriacavamo, piangeva considerando quelli che ci stavano attorno, bestiame della miseria. Rialzava gli ubriachi nei vicoli oscuri. Aveva pietà d’una madre cattiva per i bambini piccoli. – Andava in giro con le maniere graziose di una fanciulla al catechismo. – Fingeva d’essere al corrente di tutto, commercio, arte, medicina. – Io lo seguivo, è necessario!
    “Vedevo tutto l’addobbo di cui, mentalmente, si circondava: vestiti, drappi, mobili; gli attribuivo armi, un altro aspetto. Vedevo tutto ciò che lo riguardava da vicino, come avrebbe voluto crearlo per sé. Quando mi sembrava che avesse lo spirito inerte, lo seguivo, io, in azioni strane e complicate, lontano, buone o cattive: ero sicura di non penetrare mai nel suo mondo. Accanto a quel caro corpo addormentato, quante ore della notte ho vegliato, chiedendomi perché volesse tanto evadere dalla realtà. Nessun altro uomo ebbe mai un desiderio simile. Riconoscevo, – senza temere per lui, – che poteva rappresentare un pericolo grave per la società. Ha forse dei segreti per cambiare la vita? No, mi rispondevo, li cerca soltanto. Insomma, la sua carità è stregata, e io ne sono prigioniera. Nessun’altra anima avrebbe abbastanza forza, – forza della disperazione! – per sopportarla, – per essere amata e protetta da lui. D’altrone, non me lo figuravo con un’altra anima: si vede il proprio Angelo, mai l’Angelo di un altro, – credo. Stavo nella sua anima come in un palazzo che è stato sgomberato per non vedere una persona poco nobile come te: ecco tutto. Ahimé! dipendevo davvero da lui. Ma che cosa voleva con la mia esistenza squallida e vile? Non mi rendeva migliore, anche se non mi faceva morire! Tristemente stizzita, a volte gli dissi: ‘Ti capisco’. Lui scuoteva le spalle.

     

    “Così, poiché la mia pena si rinnovava di continuo, e mi ritrovavo più smarrita a i miei stessi occhi, – come a tutti quegli occhi che avessero voluto fissarmi, se non fossi stata condannata per sempre a essere dimenticata da tutti! – avevo sempre più fame della sua bontà. Con i sui baci e i suoi amplessi amici, era davvero un cielo, un cielo cupo quello in cui entravo, e dove avrei voluto che mi lasciassero, povera, sorda, muta, cieca. Ormai mi stavo abituando. Vedevo noi due come bravi ragazzi, liberi di vagare nel Paradiso della tristezza. Ci accordavamo. Molto commossi, lavoravamo insieme. Ma dopo una carezza penetrante mi diceva: ‘Come ti sembrerà strano, quando io non ci sarò più, quello che hai passato. Quando non avrai più le mie braccia sotto la nuca né il mio cuore per il tuo riposo, né questa bocca sui tuoi occhi. Perché bisognerà che me ne vada, molto lontano, un giorno. E poi devo aiutarne altri: è il mio dovere. Anche se non troppo appetitoso…, cara anima…’ Di colpo mi sentivo, dopo la sua partenza, in preda alla vertigine, precipitato nell’ombra più atroce: la morte. Gli facevo promettere di non abbandonarmi. L’ha fatta venti volte, questa promessa d’amante. Ed era cosa frivola, come quando io gli dicevo: ‘Ti capisco.’ “Ah! non sono mai stata gelosa di lui. No, non credo che mi abbandonerà. Che farebbe? Non ha conoscenti, non lavorerà mai. Vuol vivere da sonnambulo. La sua bontà e la sua carità, potrebbero dargli diritto al mondo reale? Ogni tanto dimentico la miseria in cui sono caduta: mi renderà forte, viaggeremo, andremo a caccia nei deserti, dormiremo sui selciati di città sconosciute, senza cure, senza pene. Oppure mi risveglierò, e le leggi e i costumi saranno mutati, – grazie al suo potere magico, – il mondo, pur rimanendo lo stesso, mi lascerà ai miei desideri, alle gioie, alle indolenze. Oh! la vita d’avventure che esiste nei libri per bambini, ho sofferto così tanto, per ricompensarmi, me la darai? Non può. Ignoro il suo ideale. Mi ha detto di avere rimpianti, speranze: tutte cose che non devono riguardare me. Parla con Dio? Forse dovrei rivolgermi a Dio. Sono nel profondo dell’abisso, e non so più pregare.

     

    “Se mi spiegasse le sue tristezze, le capirei meglio dei suoi scherni? Si infuria con me, passa ore ed ore a farmi vergognare di tutto quel che al mondo poteva starmi a cuore, e se piango si indigna.

    “‘Vedi quel giovanotto elegante che entra nella bella casa serena: si chiama Duval, Dufour, Armand, Maurice, che ne so? Una donna si è consacrata all’amore di quell’iniquo imbecille: è morta, adesso è certamente una santa, in cielo. Tu mi farai morire come lui ha fatto morire quella donna. È la nostra sorte, noi cuori caritatevoli…’ Ahimé! c’erano giorni in cui tutti gli uomini che agiscono gli parevano in balia di deliri grotteschi: rideva spaventosamente, a lungo. – Poi, riprendeva i suoi modi di giovane madre. Se fosse meno selvatico, saremmo salvi! Ma anche la sua dolcezza è mortale. Io gli sono sottomessa. – Ah! sono pazza!

    “Forse, un giorno sparirà meraviglisamente; ma occorre che io sappia, se deve risalire a un cielo, che io veda un po’ l’assunzione del mio amichetto!”
    Strano ménage!

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