• Andrea Zanzotto – L’insorgere del suono poetico – Intervista di Noemi Ghetti

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    Intervista ad Andrea Zanzotto apparsa sul n.35 della rivista left dell’8 settembre 2006

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    “Un parlar fondo come un basar”. Il grado infinito della scrittura.


    di Noemi Ghetti

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    «Sembra sempre più difficile parlare di quel fatto abbastanza equivoco, strambo che oggi rischia di essere la poesia. Ci si trova non dico a scrivere, ma a “tracciare”, a scalfire il foglio, più che con la piena coscienza di quello che si sta facendo, con la sensazione di non poter sfuggire ad una necessità». Era il 1976 quando Andrea Zanzotto scriveva queste righe, incluse nel grande volume Le poesie e prose scelte dei Meridiani

     

    Mondadori, che raccoglie la sua produzione dal1938. «Non c’è poesia che non abbia a che fare con l’emarginazione – prosegue – e, appunto quando vi è coinvolta in pieno, questa forza da cui viene la poesia tocca il “margine”, il limite, e forse va al di là di tutto quello che si poteva sospettare o prevedere all’inizio». Abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo nel suo ritiro di Pieve di Soligo, paese trevigiano che si stende nella fertile piana sfigurata dall’assalto dell’imprenditoria del Nordest.

    Terra dall’idioma arcaico e dal recente passato rurale, dove la fantasia del poeta, nato nel 1921, affonda profonde radici, e dove lui ha scelto di trascorrere quasi tutta la vita. Da questa postazione marginale, cresciuto in una famiglia antifascista e poi partecipe della Resistenza, dal dopo guerra ha intessuto un incessante dialogo con la cultura italiana e europea di gran parte del Novecento, attraversando esistenzialismo, marxismo e psicoanalisi, alla ricerca di risposte cui lo spingeva la condizione di poeta, e a volte anche un dichiarato disadattamento. Al Casanova di Fellini ha regalato i recitativi veneziani di Filò, collaborando fino a tempi recenti con musicisti e compositori, come si legge nel volume di autori vari Andrea Zanzotto, Tra musica, cinema e poesia, edito da Forum. «Alla mia età tutto si presenta vorrei dire quasi futile» sussurra con lieve civetteria. Ma provocato dalle domande rivela a tratti nella voce e nello sguardo l’aria di ragazzo, la perdurante fiducia in un’operazione, il fare poesia, è come lui dice «priva di qualsiasi garanzia», ma comunque legata a un’idea alta della letteratura e dell’uomo.

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    Mi accoglie nella casa silenziosa, immerso nella ricerca di certi fiumi dell’Asia centrale che finiscono nei deserti. Indica il libro che sta leggendo, Taklimakan, il deserto da cui non si torna indietro del geografo Eugenio Turri, mormorando misterioso: «Cercare una cosa che scompare. Averla sotto gli occhi non è garanzia che non si perda. Riesco a lavorare poco, salvo qualche verso: quelli, vengono da soli».

     

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    Deserto del  Taklimakan : foto  Florence Raut

    Ci può parlare del mestiere del poeta? Anche le parole della poesia sono futili?

    Quelle un po’ meno. Non sono futili, ma terribilmente limitate. Il potere della poesia è infimo, condizionato dal contesto storico-culturale in cui il futuro poeta nasce, e legato alla lingua in cui scrive. L’italiano può anche andare, ma nelle traduzioni i limiti si sentono. Il suono si perde.

     

    La sua ricerca poetica attraversa fasi diverse, ma ha un filo continuo: la tensione a forzare il significato delle parole fino quasi a distruggerlo per creare un senso nuovo.

    La poesia è fuori dal campo dell’utile, è un mondo a sé, che però riesce a volte a trovare la via per esprimere cose non dette prima. Ma non si può mai parlare di creazione piena, perché quasi sempre ci sono echi di una tradizione precedente. E questo è anche una fortuna.

     

    Il disagio per lo scollamento tra il linguaggio verbale comune e la realtà interna di immagini ed affetti, che percorre buona parte della sua ricerca, viene sanato quando il poeta “trova le parole”?

     Avverto anche subito quando c’è qualcosa che non va, perché l’onda ritmica fa sentire un suo vuoto. Ma la correzione può avvenire in tempi diversissimi, a volte il giorno dopo, a volte ci vogliono anni. Non è una questione di scelte cerebrali, è sempre importante mantenere l’orecchio che percepisce la stonatura. Nel Meridiano c’è un saggio sulla prima genesi della poesia. È una sillaba, un suono o un’idea che viene dal profondo.

     

    Tra i suoi affascinanti saggi, ce n’è anche uno sul rapporto tra sonno e veglia intitolato “Una poesia, una visione onirica” È come una forma non cosciente nella veglia?

    È un’insorgenza, un processo di genesi fortemente unitario. In moltissimi casi il significante è quello che fa apparire nuovi significati. Ad esempio un monstrum come la Divina Commedia, se fosse stata scritta in versi liberi avrebbe stancato. Scritta in terzine che implacabilmente si legano, come lettore ti porta in un vortice. Se sei un autore hai la sorpresa di veder nascere quanto non pensavi possibile, anche dalla banalità di una rima. Questo accade anche in Petrarca e Ariosto, restando su esempi di altissimo livello, che hanno saputo manovrare le rime come l’arco di un violino. Questo processo, che è di nascita e di autorivelazione per l’autore, può più tardi rivelarsi nei meccanismi segreti dell’animo del lettore. Prendiamo il sonetto di Foscolo «Né più mai toccherò le sacre sponde», un’alta eleganza lega i vari punti con rime adatte. Ci sono rime che hanno dentro la parola che precede: acque, onde sono presenti in tutti i primi otto versi come parte di un’altra parola. Cosa che può suscitare meraviglia, ma che c’è. I neuroscienziati hanno cercato di capire che cosa accade nel cervello.

     

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    Ma la mente non è fatta anche dalla sensibilità della pelle, dagli occhi, dagli orecchi?

    Diciamo che una poesia impegna tutto l’essere. In continuazione escono articoli sulle mie poesie che mostrano che ho scritto qualcosa di cui non mi sono reso conto, ma che sento mio. Ma la vecchiaia si fa sentire, limitando tutte le energie, anche quelle mentali. I secoli, dice Lope de Vega, quando sono passati non sono che ore.

     

    Lei scrive a mano o a macchina?

    Una volta, per la prosa, usavo la macchina per scrivere, ma se è una poesia, scrivo a mano: la poesia è sempre uno psicogramma. Siamo in un campo, in cui è possibile sperare di essere dentro i limiti dell’irrazionale. Perché il razionale è tutto in ordine, come i soldatini.

    Ma l’irrazionale deve avere dei limiti precisi, sennò si va nella follia. Il bell’incontro si avvia alla conclusione, allora dico ridendo che l’irrazionale quando è sano è la bellezza dell’essere umano e può certamente essere lasciato libero. Mi guarda con occhi penetranti, mentre gli porgo l’ultimo numero di Left, e lui mi porge un libro sul disastro ecologico della zona. In questi giorni un suo intervento di denuncia di nuovi guasti all’ambiente ha suscitato dure reazioni nella stampa locale. Io sfoglio il libro, e lui sfoglia Left, chiedendomi del giornale. «Linea ottima! – commenta – ci rincontreremo?»

     

    Qui una la registrazione di una trasmissione radiofonica del dicembre 2012 dedicata ad Andrea Zanzotto, con un’intervista all’autrice di questo articolo.

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