• La malattia invisibile: “Esiste la malattia mentale?”

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     dalla Redazione

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    Oggi su L’Unità è stato pubblicato un articolo che sconferma per l’ennesima volta la tesi “la malattia mentale non esiste” dell’antipsichiatria nutritasi con il cibo avariato della dasein analyse  di Luwig Binswnager epigono di Heidegger il creatore del sistema filosofico nazista.  

     

    Il fatto: su l’Unità del 22.9.12 veniva pubblicato un articolo firmato dallo psicanalista Stefano Carta il quale, facendo il solito giochetto della neutralità, surrettiziamente esaltava la figura di  Thomas Szasz, il ricercatore che disse «La malattia mentale è un’invenzione».

    Aggrappandosi alla inesistente influenza di questo medico anziano americano ( avete mai sentito parlare di Thomas Szasz? Io no!) morto l’11 settembre, Carta faceva un cattivo uso della propria professione che, come spiega l’articolo firmato da otto psichiatri del Centro Italia,  ha il dovere giuridico di curare i malati di mente … o può decidere di cambiare professione. Noi ce lo auguriamo.

     

    Abbiamo raccolto i testi del sempre preziosissimo Blog Segnalazioni (http://segnalazioni.blogspot.it/) e vi proponiamo la risposta importantissima degli otto psichiatri, che chiarisce il significato di “malattia mentale”, e, sotto, l’articolo di Stefano carta che, nella sua ingiustificata onnipotenza, lancia una sfida sull’esistenza o meno della stessa.

     

    Buona lettura

     

     

    Lettera degli Psichiatri

    La malattia non è un’invenzione

     

    In riferimento all’articolo comparso il 22 settembre su l’Unità dal titolo «Il bombarolo della psichiatria» a firma di Stefano Carta.

     

    A volte succedono cose inspiegabili, come quella di ricordare un personaggio come Thomas Szasz, le cui idee sono state sconfessate dalla Storia. Il pubblico dei vostri lettori, ne siamo certi, per scelta o per necessità crede nel Sistema Sanitario Nazionale cioè crede (o deve credere) nella competenza dei tanti psichiatri che quotidianamente si «dannano» per cercare di rispondere alle domande dei tanti che, nonostante le rivoluzionarie idee dei Szasz, affollano gli ambulatori dei Csm distribuiti su tutto il territorio nazionale.

     

    È forse di sinistra dire che «la malattia mentale non esiste?» oppure che «la malattia è solo una forma particolare di comportamento, una forma particolare di vita», oppure ancora che «il malato, esattamente come una persona sana, mette in atto comportamenti specifici orientati verso scopi». Insomma la mamma che butta la figlia di otto anni dal settimo piano e poi la segue ponendo fine alla vita di entrambe ha fatto solo un «gioco comunicativo?».

     

    Urge fare qualche semplice considerazione rimanendo saldamente ancorati alla realtà: innanzitutto l’idea che «la malattia mentale è un’invenzione» ha ispirato, almeno in Italia, la chiusura di quelle orrende istituzioni che erano gli ospedali psichiatrici, ma sciaguratamente l’unico effetto che abbiamo ottenuto è stato che l’assistenza ai malati di mente gravi ricade oggi quasi completamente sulle spalle delle rispettive famiglie con il conseguente carico di sofferenza che si riverbera su un gruppo ben più vasto di persone, tutte obbligate dal «sistema» a farsi carico di realtà patologiche di cui non conoscono nulla se non che si tratta di malattie «a causa sconosciuta e per questo croniche ed incurabili».

     

     

    Questi pensieri ancorché vecchi di decine di anni, contraddicono, nascondono, omettono quanto la psichiatria va proponendo negli ultimi 20 anni: è ormai patrimonio acquisito a livello internazionale che la malattia mentale grave dell’ adulto comincia durante l’infanzia, dando segni nel corso dell’adolescenza.

     

    Negli adolescenti sono presenti sintomi sfumati che danno malessere, sofferenza e isolamento sociale; tali sintomi smettono di apparire tali al momento della transizione nella psicosi e si accompagnano ad una totale perdita di rapporto con la realtà. Altrettanto evidente è che le malattie mentali sono fortemente influenzate, se non determinate, da fattori ambientali grossolani (come le migrazioni, uso di sostanze, isolamento sociale etc.) o meno evidenti come le violenze fisiche e non.

     

    Vale, poi, la pena soffermarsi sul ragionamento di Szasz che «il termine malattia può essere riferito esclusivamente a malattie organiche» mentre quelle mentali (mancando del corrispettivo organico) vengono definite malattie «funzionali». Falsificando la realtà, si dice che dei comportamenti normali vengono «interpretati» come malati dalla psichiatria, ma in verità sono solo scappatoie in cui si rifugerebbe chi non riesce ad «esprimere autonomamente, responsabilmente e liberamente gli scopi che desiderano perseguire». È proprio questa idea che promuove e spinge l’intera ricerca biologica e il conseguente ricorso ai farmaci. Siccome non abbiamo ancora individuato le basi biologiche delle malattie mentali dobbiamo investire miliardi di dollari e utilizzare sistemi di indagine altamente sofisticati allo scopo di confermare un’idea vecchia di 2.500 anni. E cioè che le alterazioni della mente devono essere il prodotto di un danno biologico.

     

    E così accade che le persone non vanno dallo psichiatra, delegittimato, reso impotente, grazie anche alla confusione generata da scritti come quello di Stefano Carta. L’ennesimo messaggio «nichilista» che confonde e dispera la gente. Perché invece non cominciare, proprio su questo giornale, a diffondere un messaggio di possibilità di prevenzione e di «cura» attraverso la diagnosi e l’intervento precoce?

     

    Per concludere, una riflessione importante: non più tardi di un anno fa la VI sezione penale della Cassazione ha depositato la sentenza 14408, relativa ad un caso di «abuso della professione medica», che recita: «Né può ritenersi che il metodo del «colloquio» non rientri in una vera e propria forma di terapia, tipico atto della professione medica, di guisa che non v’è dubbio che tale metodica (…) rappresenti un’attività diretta alla guarigione da vere e proprie malattie (ad es. l’anoressia) il che la inquadra nella professione medica».

     

    Insomma i giudici della Cassazione, a differenza di Szasz e di Carta, sono certi che le malattie mentali sono vere e proprie malattie e che debbono essere curate e guarite. Ed è per questo che Noi scriviamo a l’Unità e non raccogliamo la sfida di Carta («E se Szasz avesse avuto ragione? Agli psichiatri, agli psichiatri in primis, l’onere di accettare davvero la sfida»). Ma ogni giorno raccogliamo quelle dei nostri pazienti psichiatrici.

     

    T. Amici, Dirigente medico Asl Grosseto;

    G. Cavaggioni, prof. Aggregato di Psichiatria “Sapienza” Università di Roma;

    G. De Simone, Psichiatra e Psicoterapeuta;

    P. Fiori Nastro, prof. Aggregato di Psichiatria “Sapienza” Università di Roma;

    F. Fagioli, Dirigente medico Asl RmE; M. Fagioli, Dirigente medico Asl RmB;

    A. Filippi, Dirigente medico Asl Terni;

    A. Masillo, Psichiatra e Psicoterapeuta; A. Masini, Dirigente medico Asl RmD;

    E. Pappagallo, Dirigente medico Asl Viterbo

     

     

    E questo è l’articolo dello psicanalista Stefano Carta

     

    l’Unità 22.9.12


    Il «bombarolo» della psichiatria


    Thomas Szasz, il ricercatore che disse «La malattia mentale è un’invenzione»


    Il ricordo Uno dei protagonisti più scomodi influenti e ostracizzati della scienza psichiatrica (la considerava pseudoscienza) è morto l’11 settembre scorso all’età di 92 anni


    di Stefano Carta
    , psicoanalista

    L’11 SETTEMBRE SCORSO È MORTO, ALL’ETÀ DI 92 ANNI UNO DEI PROTAGONISTI PIÙ SCOMODI, INFLUENTI E OSTRACIZZATI DELLA STORIA DELLA PSICHIATRIA.

    Szasz era nato a Budapest da una coppia ebrea ungherese, che rifugiò negli Stati Uniti nel 1938 a causa delle persecuzioni naziste. Nel 1960, un anno dopo avere vinto la cattedra di psichiatria all’università di Syracuse, nello stato di New York, pubblicò quello che è considerato il suo libro più importante, Il mito della malattia mentale, al quale è seguita una produzione di decine di libri e centinaia articoli scientifici.
    Il mito della malattia mentale fu accolto dalla comunità scientifica internazionale, così come in generale dal mondo della cultura, come una vera e propria bomba destinata ad esplodere nel cuore stesso della psichiatria. La tesi centrale del libro era, infatti, assolutamente «radicale»: la malattia mentale qualsiasi malattia mentale non esiste, essendo un artefatto inventato per ragioni di potere, prestigio e controllo dalla psichiatria, e fondato su quelli che Szasz considerava fondamentali errori epistemologici e metodologici.
    Secondo Szasz, infatti, il termine malattia può essere riferito esclusivamente a malattie organiche, vale a dire a particolari condizioni osservabili e relative a organi o parti del corpo (come per esempio uno sbilanciamento nel metabolismo del litio). Alla base di questa definizione di malattia nei termini di malattia organica Szasz ha fatto posto il padre della patologia moderna, Rudolf Virchow, e il suo trattato del 1858 su La patologia cellulare nella sua fondazione dall’istologia patologica e fisiologica, considerato il punto di ancoraggio della patologia medica moderna.

    Secondo l’acuta analisi di Szasz, imbevuti della cultura materialistica e riduzionista dell’epoca, gli psichiatri ottocenteschi, come Charcot e Freud (il quale era un neurologo «prestato» alla psichiatria) estesero il concetto di malattia dagli organi somatici e dai segni che ne evidenziano all’osservazione le patologie, a delle cosiddette «funzioni», creando così dal nulla una nuova classe di malattie, come l’«isteria di conversione», che vennero denominate, appunto, malattie funzionali. Tuttavia, mentre la malattia organica, per esempio, neurologica o neurochimica, è osservabile, quella funzionale, ovvero quella relativa ai comportamenti di una persona, era, secondo Szasz, inferita, e quindi letteralmente inventata da colui che interpreta un certo comportamento in termini, appunto, di malattia.

    Per Szasz, quell’artefatto inventato e reificato che chiamiamo «malattia mentale» sarebbe quindi il frutto di una abusiva letteralizzazione di una metafora: il paziente che si comporta come se avesse una malattia organica (o sul quale uno psichiatra fa una simile attribuzione e assimilazione) viene etichettato come «malato mentale». Successivamente, a questa etichetta si sottrarrà il suo carattere metaforico, e si agirà come se il paziente fosse veramente affetto da una entità morbosa da eliminare. È evidente che l’eliminazione non sarebbe relativa ad un’entità inesistente, ma a forme particolari di comportamento, a forme particolari di vita.

     

     

    Una “forma particolare di vita“!!!

     

     

    Un esempio di questo processo socioculturale di etichettamento è quello dell’omosessualità, fino a qualche decennio fa psichiatrizzata e «diagnosticata» come malattia mentale.
    Szasz la pensava diversamente: secondo lo psichiatra la persona che, per esempio, si comporta da isterica o da depresso, mette in atto, esattamente come una persona «sana», comportamenti specifici orientato versi scopi. E questi comportamenti, a loro volta, iscrivendosi all’interno di una matrice intersoggettiva e sociale particolare, si organizzano e si articolano in forme e stili peculiari, che Szasz chiamava «giochi comunicativi». Pertanto, la differenza che passa tra un «sano» e un «malato» sarebbe data dal fatto che il secondo, iscritto in una matrice psicosociale di potere, non può o non riesce ad esprimere autonomamente, responsabilmente e liberamente gli scopi che desidera perseguire. In sostanza, per Szasz, la psichiatria, reificando la posizione subalterna del «malato», la confermerebbe isolandolo, etichettandolo e controllandolo sia attraverso processi di istituzionalizzazione che di «cura» farmacologica.
    Szasz ritiene che colui a cui attribuiamo un’entità «reale» in verità un artefatto di carattere magico-religioso comunica, attraverso modi speciali, i propri scopi, cercando di evitare proprio ciò a cui la psichiatria, in analogia con i sistemi di etichettamento e «salvazione» delle streghe medioevali, poi lo condannerà. Per Szasz, quindi, la malattia mentale è un etichettamento patologizzante, controllante ed espulsivo di un comportamento intelligente che usa strategie difensive e di occultamento rispetto ad un ambiente oppressivo o comunque fortemente asimmetrico. Queste strategie comunicative per Szasz utilizzavano codici protolonguistici e linguaggi non-discorsivi, iconici e performativi, per manifestare ciò che in una posizione di maggior potere negoziale il soggetto potrebbe esprimere in forma più consapevole, libera e diretta.

     

    Spesso Szasz è stato assimilato all’antipsichiatria, o addirittura ne è stato considerato il padre. Niente di più falso. Più volte, infatti, riportando il motto di Voltaire: «Dio mi protegga dai miei amici, che dai nemici mi proteggo io», Szasz sottolineò come Cooper a Laing in primis, e tutta l’antipsichiatria inglese, a partire dalla questa orrenda denominazione, anziché avvalorare l’inesistenza della malattia mentale la perpetuava attraverso pratiche comunque psichiatriche, unite ad una sinistra pseudo-idealizzazione di questa entità creata ad hoc. Se, come recita un suo libro recente, la psichiatria era un’ «impostura» per Szasz, l’antipsichiatria era un’impostura al quadrato.

     

     

    Da Wikicuote:  “Se tu parli a Dio, stai pregando;

    se Dio parla a te, sei uno schizofrenico”. Thomas Szasz

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    Se mai un inquadramento filosofico fosse possibile, Szasz era un radicale esistenzialista; una sorta di estremo Sartre di «destra» (nel senso ampio che Bobbio diede a questa categoria) difensore radicale della libertà individuale, vicino all’interazionismo simbolico, al costruzionismo sociale (come nel caso di Goffman), alla psichiatria di Sullivan e, forse, alla «psicologia dell’azione» di Shafer nonché alla critica mossa dall’etnopsichiatria di Tobie Nathan all’impianto psicoanalitico a partire dai suoi dispositivi tecnici. Ma Szasz certamente non apparteneva all’antipsichiatria, né all’atteggiamento di Foucault, che considerava un critico algido e non impegnato in nessuno degli effetti che le sue analisi mettevano in luce.

    Szasz fu sempre molto chiaro nel non voler essere «infangato» dall’etichetta di antipsichiatra proprio per il fatto la sua era una critica radicale, paradigmatica, alla psichiatria nel suo complesso. E, come fu con il flogisto prima di Lavoiser, sotto la critica di Szasz letteralmente scompare tutto un mondo che, nel paradigma precedente alla critica (quello, quindi, psichiatrico) sembra ovvio e reale. Per questo lo psichiatra dichiarava che la sua non era un’opera di psichiatria, ma una critica sulla psichiatria, e ai pochi psichiatri che non lo liquidavano con una scrollata di spalle, ma contrattaccavano, rispondeva che la loro richiesta di dimostrare l’inesistenza della malattia mentale e il suo carattere mitico e coercitivo era insensata, proprio perché verteva ancora su una invenzione inesistente di una pseudoscienza.

     

    Oggi viviamo in un’epoca dominata dal manuale statistico diagnostico (Dsm) delle malattie mentali: una vera e propria Bibbia nosografica che, come un lupo essenzialista travestito da agnello nominalista (Brierley), deculturalizza i propri soggetti descrivendoli attraverso moduli comportamentali parcellizzati i quali escludono a priori la possibilità di un progetto e un senso simbolico delle condotte, e che, così facendo, nomina entità nosografico-nosologiche quasi-reali. Viviamo in un mondo in cui la «farmacocrazia» non solo produce strepitosi profitti, ma anche promette l’estirpamento di quella «malattia mentale» che Szasz riteneva essere invece il tentativo di progetti ed espressione simboliche individuali da tradurre e interpretare. Viviamo in un mondo di straordinari progressi neuroscientifici (quindi appartenenti al regno dell’organico), che vengono spesso invocati per giustificare la «cura» della malattia «mentale».
    Un buon atteggiamento scientifico, falsificazionista fino in fondo, imporrebbe non di espellere Szasz dalla riflessione e dalla letteratura psichiatrica contemporanea, ma, al contrario, di assumerlo come il più formidabile critico dell’impostazione dominante. È infatti, possibile che Szasz fosse un visionario e fosse in errore, tuttavia credo che la domanda più utile e dotata di maggior forza euristica oggi resterebbe questa: «E se avesse avuto ragione»?

     

    Agli psichiatri, agli psichiatri in primis, l’onere di accettare davvero la sfida.

     27 settembre 2012

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    • La lettera degli Psichiatri non chiarisce perché, scientificamente, la malattia mentale sia malattia. Addirittura fanno appello alla VI sezione penale della Cassazione ha depositato la sentenza 14408:

      “Insomma i giudici della Cassazione, a differenza di Szasz e di Carta, sono certi che le malattie mentali sono vere e proprie malattie e che debbono essere curate e guarite. Ed è per questo che Noi scriviamo a l’Unità e non raccogliamo la sfida di Carta («E se Szasz avesse avuto ragione? Agli psichiatri, agli psichiatri in primis, l’onere di accettare davvero la sfida»). Ma ogni giorno raccogliamo quelle dei nostri pazienti psichiatrici”.

      Quindi a giudicare se la malattia mentale esiste fanno appello non alla scienza medica e/o psicologica ma alla giurisprudenza! E poi c’è la positiva conferma della “sfida” lanciata dai pazienti… In tal modo, senza evidentemente avvedersene, confermano esattamente quanto sosteneva Szasz, che qui viene detto fosse poco conosciuto (cosi come l’errore su Binswanger – vedere la scuola fenomenologica della psicoterapia e psichiatria – e sulla definizione della filosofia di Heidegger come nazista, mentre la sua filosofia non c’entra con la sua errata posizione politica) e che ha praticato per decenni la psicoterapia senza mai ordinare farmaci ma senza negare i benefici della terapia. In poche parole, con questa “lettera” i succitati psichiatri non solo non hanno contestato scientificamente nulla ma abdicato alla loro professione tirando in ballo i giudici che nella loro carriera non hanno fatto né un esame medico né psicologico.

      • … e tu come la definisci quella “cosa” che tu stesso chiami “malattia mentale”? Se non è malattia cos’è?

        ma lasciamo perdere … noi redattori abbiamo ben poco da rispondere perché nel post a cui hai apposto il tuo commento vengono messi a confronto un articolo firmato dallo psicanalista Stefano Carta e la risposta di otto psichiatri ; G. Cavaggioni, prof. Aggregato di Psichiatria “Sapienza” Università di Roma; G. De Simone, Psichiatra e Psicoterapeuta; P. Fiori Nastro, prof. Aggregato di Psichiatria “Sapienza” Università di Roma; F. Fagioli, Dirigente medico Asl RmE; M. Fagioli, Dirigente medico Asl RmB; A. Filippi, Dirigente medico Asl Terni; A. Masillo, Psichiatra e Psicoterapeuta; A. Masini, Dirigente medico Asl RmD; E. Pappagallo, Dirigente medico Asl Viterbo.
        Puoi sempre contattarli per esprimere le tue osservazioni.

        Quello che le posso dire con certezza è che Heidegger non solo era un nazista ma fu sicuramente il filosofo che fondò le premesse filosofiche del nazismo. Vale a dire che diede al nazismo un’identità filosofica e legittimò il genocidio degli ebrei. Questo emerge sia dai suoi Quaderni neri che sono stati in parte già tradotti e pubblicati sia nella ricerca espressa nel libro “Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia” di Emmanuel Faye. http://www.igiornielenotti.it/?p=1149

        Qui una ricerca molto approfondita su Heidegger. http://www.igiornielenotti.it/?tag=emmanuel-faye

        Infine, con un po’ di grano salis e perché c’è una sentenza che parla chiaro, posso dire che il medico psichiatra e lo psicologo che è abilitato alla psicoterapia hanno il dovere giuridico di curare i malati di mente, e quindi se hanno il dovere di curare significa che parliamo di malattia mentale, di malattia della psiche e non come dicevano Binswanger, Basaglia e i loro epigoni che la malattia mentale non esiste ma quello dei pazzi è solo un modo di essere . chi non è d’accordo vada a fare un altro mestiere.

        Grazie per il tuo intervento.

        Giulia De Baudi per la Redazione di G&N

    • Salve,
      mi scuso se inoltro questo commento con un certo scollamento temporale rispetto alle testimonianze in questione (intendo lo scritto di S. Carta, la replica degli Psichiatri, il commento di Emanuele e l’ultima replica, a firma della Redazione).
      Posso addurre a giustificazione di ciò solo (ma non è poco) il fatto che soltanto ieri mi sono imbattuto nell’inerente materiale pubblicato sul Vs. sito.
      Detto ciò, convengo pienamente con quanto afferma Emanuele,
      e mi sembra persino superfluo addurne le motivazioni. Se dev’essere una disciplina come quella giuridica a fare “chiarezza” (sic) sulla questione… è tutto dire.

      Chi detiene il potere di sancire che certe condotte sono “patologiche”?

      Ronald Laing ( che non era “anti-psichiatra”, come si è voluto a suo tempo far credere) l’aveva chiaramente espresso già nel suo primo scritto “L’io diviso” sottotitolato “studio di psichiatria esistenziale” (addurre il nazismo di Heidegger per invalidare tout court la validità del pensiero filosofico retrostante è inaccettabile. Purtroppo anche di un bisturi, che è uno strumento chirurgico che può salvare la vita, se ne può fare un uso omicida).
      L’analisi lainghiana (checchè ne dicesse poi, di Laing, Thomas Szasz) che rinveniva nella successione attributiva “buono-cattivo-pazzo” la radice della patologizzazione della condotta umana, mi pare tutt’oggi ineccepibilmente onesta, oltre che illuminante.
      Ma è stata volutamente dimenticata, o meglio: culturalmente rimossa.

      Perché?

      Quello che inoltre stento a comprendere è come si sia potuto dimenticare, nel breve volgere di pochi decenni, l’inestimabile contributo dato dalla scuola di Palo Alto alla comprensione della dimensione “pragmatica” insita nella malattia mentale per antonomasia: la schizofrenia.
      Si è forse temuto che una certa lettura potesse distruggere l’istituzione basilare occidentale – la famiglia – e, con essa, tutti gli equilibri degli assetti istituzionali che le sono sovraordinati?

      Tuttavia … se questo è il “terribile”, a guardarsi oggi intorno mi pare che sia proprio quel che è accaduto (re-citando le parole del filo-(sofo)-nazista).

      Personalmente mi pongo un ulteriore quesito, stavolta “esistenziale”:

      per l’uomo/scimmia sussiste una reale alternativa, a questo mondo, oltre quella – kafkiana – che impone a ciascuno di scegliere tra la “gabbia” ed il “varietà”?
      Il che, nel contesto di questo discorso, significa :
      tra la carriera del “malato di mente” e quella dello “psichiatra”?

      Cordiali Saluti
      Antonello Carusi

      • Per quanto riguarda Heidegger e la filiera della “esistenzial/nazi-psichiatria” scaturita dal suo pseudo pensiero – che in realtà è una mera reiterazione del cristianesimo più nauseabondo – basterebbero i suoi Quaderni Neri, penso che ne avrà sentito almeno parlare spero. Per quanto riguarda invece ciò che lei definisce “uomo/scimmia” e io essere umano esiste certamente una alternativa tra “varietà” e “gabbia” ovvero tra essere se stessi (che non significa autenticità dell’essere nazista) o adeguarsi al branco. Qui troverà delle risposte in proposito http://www.igiornielenotti.it/?p=6082. e anche qui http://www.igiornielenotti.it/?tag=heidegger … buona lettura

        G.D.Baudi per la redazione di G&N

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