• Il matriarcato di Bachofen: quando le donne divennero serve degli uomini

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    di Gian Carlo Zanon

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    «La regina si sceglieva un amante per soddisfare il suo piacere, Gli uomini la temevano e le obbedivano; il focolare che ella alimentava in una grotta o in una capanna fu il loro primo centro sociale e la maternità il loro primo mistero Robert Graves, introduzione a  I Miti greci .

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    Mi piacerebbe incontrare tracce certe dell’esistenza di una età dell’oro in cui donne e uomini vivevano insieme senza annullarsi vicendevolmente. Visti i risultati del cosiddetto ordine civile, forse tornare a quello “stato di natura”, di cui parlava Johann Jacob Bachofen nel suo Das Mutterrecht, è auspicabile: se questo è il cosmos, cioè l’ordine voluto e programmato dal maschio della specie, ridateci il mitico caos originario in cui le donne dominavano gli affetti e quel pensiero-corpo non ancora contaminato dalla ragione teologica.

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    Se guardiamo dalla finestra di casa, a occhi aperti, ci accorgiamo che la donna è portatrice di quel tipo di civiltà che non essendo fondata sulla scissione mente /corpo, produce quella ricchezza indispensabile per una società ad alto contenuto di umanità. Se guardiamo dalla finestra di casa, con rammarico ci accorgiamo che nei paesi in cui la l’identità umana donna è annullata (leggi qui) fino al punto di considerala poco più che una merce di scambio, regna la tirannia e la sopraffazione. Questo perché l’uomo senza immagine femminile è semplicemente disumano .

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    Che sia esistito e che ancora esista il patriarcato è un dato, purtroppo, inoppugnabile. Basterebbe rileggersi le leggi vigenti fino a pochi anni in Italia fa o le legislazioni misogine, ancora vigenti, negli stati dei nostri “cugini” mussulmani, induisti ed ebrei (*), per eliminare ogni dubbio in proposito.

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    L’esistenza del matriarcato invece, seguendo le regole empiriche e positivistiche, è difficilmente dimostrabile. Ci provò  Bachofen nel 1841 col suo ora famoso Das Mutterrecht . Una ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico, nella sua natura religiosa e giuridica, e questo gli costò cent’anni di solitudine e di oblio: questo suo lavoro gli causò l’isolamento accademico fra i suoi contemporanei e la sua glorificazione da parte del movimento femminista negli anni ’70. In quegli anni sulla porta di in una famosa libreria romana in piazza Farnese, in cui era vietato l’ingresso al genere maschile, campeggiava una grossa epigrafe che recitava : «La natura non ha regalato alla donna tante bellezze, perché essa sfiorisca fra le braccia di un solo uomo.» Firmato Bachofen. Come dargli torto.

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    Ma al di là di entrambi gli eccessi, l’opera di Bachofen è importante non tanto per l’affermazione dell’esistenza del matriarcato ma per aver messo in luce l’identità femminile e per il metodo storiografico e filologico utilizzati nella ricerca.

    Bachofen, docente di storia del diritto romano all’Università di Berlino, per la sua ricerca non utilizzò le fonti storiche propriamente dette, ma cercò le tracce di ciò che gli era balenato nella mente, nel diritto dei popoli antichi, nella tragedia attica e nei miti. Affondando nella pasta della storia scoprì che per poter capire la storia dell’innaturale supremazia maschile, padrona e facitrice del diritto, doveva rivolgersi al pensiero culturale egemone in quei frangenti storici in cui le crisi determinavano eventi culturali e le trasformazioni nel diritto.

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    Lo si vede anche ora: davanti al fenomeno della migrazione forzata di milioni di persone (crisi) cambiano i paradigmi culturale (rifiuto dello straniero) e le leggi subiscono una trasformazione (leggi sulla clandestinità e revisione del trattato di Shengen). Fra migliaia di anni avremo certezza di quanto è accaduto leggendone le tracce nel diritto e nella narrazione mitizzata dal tempo/memoria.

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    La storia da qualunque parte la si guardi resta comunque una narrazione permeabile ad ogni tipo di contaminazione e quindi è falsificabile. Compito dello storico, si dice, è l’esposizione dell’accaduto. Ma l’accaduto in sé non può essere che parziale perché al di là dell’apparire del cadavere mummificato dell’avvenimento, permane, sconosciuta ai più, la parte che rimane invisibile, interna al fatto. Parte che è causa fondante di ciò che è avvenuto e quindi contenuto. Per questo motivo anche una fonte storica, come un documento inoppugnabile, andrebbe interpretata non solo alla luce del “quando”, “come”, “perché”, ma anche “da chi”, dal “spinto da chi” e altre decine di domande che solo un filologo appassionato e senza gabbie religiose e/o ideologiche è in grado di porre.

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    Se l’involucro della storia non è sufficiente per capire gli accadimenti si devono scoprire  “le tracce immortali” coperte dalla polvere del tempo che sono la sostanza della storia. Questi segni delle crisi e delle loro risoluzioni incisi nel tempo si debbono cercare nei luoghi in cui esse potevano proteggersi da quelle corruzioni storiche che a volte sono casuali e spesso scientemente volute.

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    Per trovare queste tracce e per decifrarle, è necessaria una nuova ermeneutica. Un metodo che non assuma i veri e propri strumenti euristici ben definiti dalla ragione. A meno che non si voglia definire strumenti di ricerca la passione per la verità, la curiosità “patologica”, l’immersione totalizzante nella storia, la percezione poetica  del visionario e l’immedesimazione empatica con chi ha tracciato quei segni alfabetici. Ebbene, anche se potrebbe sembrare assurdo, sono questi elencati gli strumenti adatti e , è il caso di dire, bisogna farsene una ragione. Come disse il filologo tedesco Friedrich August Wolf : «la storia è storia, non matematica».

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    Wilhelm von Humboldt, fondatore dell’Università di Berlino, molto probabilmente influenzò Bachofen, visto che sicuramente il basilese lesse le sue Lezioni di metodo dello studio accademico. In quel testo troviamo orme di un pensiero che per gli storici potrebbe suonare blasfemo.

    Humboldt affermava che lo storico come il poeta si rende «autonomo e persino creativo». Il poeta e estensivamente l’artista, non si accontentano della storia come una mera sovrapposizione di accadimenti senza senso, né aderiscono religiosamente allo spirito della storia che guiderebbe gli eventi in virtù di un pensiero divino. Il poeta e l’artista narrano «la verità interiore delle forme» che è parte integrante del lavoro storiografico. Giungere alla cause prime del movimenti di pensiero che determinano gli accadimenti, secondo Humboldt si può ottenere «solo mediante la fantasia». Certamente una fantasia che prima deve aver fatto i conti con l’«esperienza e l’esplorazione della realtà» storica.

     

    ok ore

    E così, in pieno positivismo Bachofen, si immerge nel talassa àpeiron (mare infinito) del mito, dell’arte e della tragedia greca. Anche se, a dirla fino in fondo e  contrariamente alla vulgata femminista, egli non lo fa in difesa del genere femminile, lo fa per ribadire ancora una volta che il patriarcato è la forma più elevata di società, visto che secondo lui il diritto patrilineare «dà origine a un’epoca completamente nuova, caratterizzata dall’esistenza di un saldo ordinamento della famiglia e dello Stato, un’epoca che reca in sé i germi di un grande sviluppo e di una superba fioritura».

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    «Opponendosi ai metodi della scuola critica del diritto, – scriveva Eva Cantarella nella sua introduzione del libro “Johann Jacob Bachofen Il potere femminile, Storia e Teoria” (Il saggiatore-1977)  – che privilegiava le fonti documentali e le poneva alla base delle sue ricostruzioni, dopo averle sottoposte a rigorosa analisi filologica, Bachofen si prefiggeva l’obiettivo di una ricerca più vasta, volta a ricostruire non solo gli avvenimenti, ma lo «spirito», cioè i miti, le istituzioni politiche e private, i costumi e i sentimenti dei popoli dei quali di volta il volta si occupava. Una storia, quindi, che si servisse di tutte le testimonianze che l’antichità aveva lasciato, esaminate nel loro insieme e nelle loro reciproche relazioni: e, in particolar modo, che utilizzasse come fonte storica il mito, inteso come «rappresentazione dell’esperienza di vita di un popolo, alla luce della sua fede religiosa.» Non come rappresentazione di fatti realmente accaduti, quindi, ma non per questo meno importante. «Negandogli storicità» Bachofen dirà infatti in un’opera della maturità «non si toglie al mito il significato. Ciò che può non essere accaduto, è stato però pensato. (…) L’esame della trilogia Agamennone, Coefore ed Eumenidi – egli sostenne – dimostra che in Grecia vi è stato un momento in cui il potere era in mano alle donne.»

    Il mito, quindi, lungi dall’essere storia certificata come nella storiografia ufficiale o verità rivelata come nella narrazione del nuovo e nel vetero testamento, è l’eco della storia salvatosi dalla contaminazione ideologiche, dalle corruzioni politiche e religiose, e dalle speculazioni filosofiche e teologiche.

    Bachofen, nel suo libro (nel capitolo in cui parla di Atene) parla quindi del “diritto apollineo” uscito vincitore sulla giustizia matrilineare rappresentata dalle Erinni dee primigenie che sovraintendevano alla legge del sangue. Ed è il diritto apollineo che scalzando la legge dionisiaca , e quindi le leggi irrazionali a cui si appella Antigone, fonda il diritto patriarcale fondato sulla ragione e sulla religione regolata anch’essa da gerarchie ben delineate. L’Olimpo politeista greco è l’anticamera del monoteismo giudaico cristiano.

    Attingendo ai miti degli Atridi e al ciclo epico dei Nostoi (I ritorni) Eschilo crea la trilogia dell’Orestea, nella quale Bachofen, seguendo il suo fiuto, trova tracce certe di un antico diritto matrilineare precedente al patriarcato ed entrato in rotta di collisione con vari rivolgimenti etici e storici che hanno permesso il dominio millenario del maschio della specie umana  sul genere femminile. Genere femminile  che verrà poi considerato da Aristotele «anomalia della specie».

    La tesi del basilese è questa: Clitennestra – come d’altronde faranno Giocasta e Penelope – quando il trono rimane vacante per l’assenza prolungata di Agamennone, marito e re, ripristinerà il matriarcato. Al ritorno del patriarca ella, al contrario di Penelope, non si fa da parte ma lo uccide forte del diritto matrilineare che la difende. Clitennestra non uccide un consanguineo quindi non infrange nessun tabù vigente. Oreste, che per l’antica legge del sangue è consanguineo della madre e non del padre, non può vendicare il genitore uccidendo la genitrice. Ma Oreste lo fa e viene perseguitato dalle Erinni (sensi di colpa) guardiane della giustizia, che lo porterebbero alla pazzia se Apollo, modificando il diritto e le leggi che regolavano il rapporto fra consanguinei,  non intervenisse per salvarlo.

    Ne Le Eumenidi, terza parte dell’Orestea, viene quindi narrata la persecuzione delle Erinni nei confronti di Oreste, e la celebrazione del processo del matricida presso il tribunale dell’Areopago che vedrà vincere Apollo grazie al voto di Atena, che vota a favore di Oreste perché la dea, essendo nata per partenogenesi dalla testa di Zeus, non ha madre. Tutto questo accade con sommo dolore delle Erinni che nel semicoro cantano «Ahi, giovani dei, voi le leggi antiche calpestate, e a noi la preda avete strappata».

    «Ogni sostegno – scrive Bachofen nel suo Das Mutterrechtdell’antica condizione giuridica dell’umanità è stato abbattuto, sono stati distrutti i fondamenti di ogni sana convivenza. Nessuno potrà più invocare : “o giustizia o trono delle Erinni”. (…) L’antico costume viene eliminato, e un nuovo principio ne prende il posto. Il legame privilegiato tra madre i figlio viene spezzato. L’uomo si colloca accanto alla donna in posizione giuridicamente superiore.»  

    Queste sono le tracce certe del diritto matrilineare, della sua crisi e della sua risoluzione umanamente involutiva che Bachofen trova nel mito portato in scena da Eschilo per ammonire ancora una volta il genere femminile “portatore di caos, sangue e dolore”, e per purificare, attraverso la catarsi tragica, la stirpe micenea/greca dal “miasma” generazionale.

    È questa catastrofe – nel suo vero senso etimologico di “svolta” – descritta nel mito trascritto da Eschilo, che porta la società proto-greca da un cosiddetto “stato di natura” a un cosiddetto “stato di civiltà”. Catastrofe etica e filosofica che però non ha alcun riscontro nelle fonti storiche. Ma questo è sufficiente per rifiutare l’esistenza di una diversa funzione del genere femminile nell’antica società dell’Ellade e relegarla così all’insignificanza storica?

    Io dico di no. Sarebbe ora di utilizzare gli antichi miti – anche quelli ebraici contenuti nella bibbia spurgandoli dai dogmi magico-religiosi – come tessere di un grandioso mosaico materico “ad altorilievo”, che permetta di non annullare le tracce del divenire del pensiero. Pensieroche è il primario movente dei fatti accaduti presenti nelle narrazioni leggendarie che portano in sé gli echi della storia:  se la leggenda del diluvio universale contenuta nella bibbia è presente in ogni mito mediterraneo e in ogni narrazione del Vicino Oriente, e se la favola di Amore e Psiche esiste da millenni in tutte le contrade del mondo antico vorrà dire che queste narrazioni contengono una verità storica da decifrare con quella fantasia di qui parlava Humboldt.

    22 marzo 2016

     

    (*) Mi riferisco alla legislazione israeliana sul divorzio e ad altre norme inscritte in molti dei più di 600 precetti della tradizione ebraica che riducono l’identità femminile. È chiaro che in confronto a moltissimi paesi arabi lo stato di Israele, come d’altronde L’Italia, non nega alle donne diritti fondamentali, ma in entrambi i paesi negli ultimi anni l’ortodossia religiosa erode sempre più la loro identità di genere. 

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