• 8 settembre 1943, nascita dell’epopea partigiana

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    Ogni anno, da quasi ottant’anni, il 25 aprile viene commemorato l’Anniversario della liberazione d’Italia dall’occupazione nazifascista. La lunga guerra civile, iniziata l’8 settembre del 1943, in verità finì definitivamente il 2 maggio 1945 con la “resa di Caserta”. In questi due anni si verificarono molteplici combattimenti tra reparti militari della Repubblica Sociale Italiana (RSI), che combattevano al fianco delle truppe di occupazione della Germania nazista, e i partigiani italiani. Oltre ai combattimenti tra i reparti armati delle due parti, si registrarono moltissime rappresaglie e stragi sulla popolazione civile e repressioni da parte delle autorità della Repubblica di Salò.  Se molto spazio mediatico viene dato al 25 aprile che segnò, anche se non completamente, la fine della resistenza partigiana, molto poco invece ne viene dato alla data dell’8 settembre, che indica la nascita di quel movimento spontaneo e individuale, prima che collettivo, che in seguito trovò forma in raggruppamenti partigiani.

    Rubando alcune parole che Beppe Fenoglio scrisse nel 1959 a Livio Garzanti, vorremmo entrare «nel fitto di detta guerra»  usando non la storiografia ufficiale ma quel “romanzo polifonico della Resistenza” incontrato nei testi di scrittori come Fenoglio, Vittorini, Joyce Lussu, Calvino, e molti altri.

    Il primo articolo di Gian Carlo Zanon parla di quel sentimento di reazione al disumano che fu il primo e il più importante movente che creò la Resistenza.

    Emo B.

    tuttiaacasa

     8 settembre 1943 – Resistenza, una questione privata

    «Non si può vivere sempre di omicidi e di violenza. Tornerà il tempo della felicità e della giusta tenerezza. (…)  Agli uomini non viene regalato nulla e quel poco che sono in grado di guadagnarsi costa il prezzo di molte morti ingiuste. Eppure non sta qui la grandezza dell’uomo. Sta nella decisione di essere più forte della propria stessa condizione umana. E di fronte all’ingiustizia di tale condizione, esiste un solo modo di sconfiggerla: essere noi i giusti»

     -Combat – La notte della verità – 25 agosto 1944

    ( la notte in cui venne liberata Parigi dal giogo tedesco)

    di Gian Carlo Zanon

     Questo ultimo mese l’ho trascorso  leggendo, studiando e pensando alla genesi della Resistenza. La molla che ha fatto scattare questo trip è stata la lettura di Una questione privata di Beppe Fenoglio.

    In quel libro vivono, strettamente legati tra loro, i moventi primi della Resistenza, vale a dire quelle intenzionalità irrazionali, – irrazionali perché non legate a ragioni utilitaristiche – che fecero nascere il fenomeno della lotta partigiana. Questi moventi primi appartennero alla sfera privata di ogni individuo che scelse di entrare nella clandestinità resistente. Furono i giovani che reagivano fuggendo dalla ferocia del nazifascismo, che si concretizzava nella chiamata alle armi obbligatoria pena la fucilazione, dei renitenti e dei “disertori”, a creare i primi nuclei di resistenti. Gli uomini dovettero fare una scelta: divenire o probabili vittime o sicuri carnefici. La scelta delle donne, fu ancor più irrazionale perché non legata a nessun obbligo immediato di scelta.

    Affermare che il rifiuto del nazifascismo nasca da motivazioni razionali, significa esprimere solo una piccola parte di una verità molto più complessa. Significa togliere alla storia della Resistenza quei contenuti umani senza i quali la guerra civile contro i nazifascisti non avrebbe potuto aver luogo.

    Chi salì quei monti e quelle colline probabilmente non sapeva esattamente perché lo faceva ma sapeva cosa non voleva più: aderire alla barbarie nazifascista.

    La storia racconta di una resistenza organizzata dai partiti antifascisti, soprattutto Socialista  e Comunista. La realtà è ben più sfaccettata e quel tipo di storiografia è nata da impostazioni ideologiche e/o per utilità politiche:

      « Cominciava appena allora il tentativo d’una “direzione politica” dell’attività letteraria: si chiedeva allo scrittore di creare “l’eroe positivo”, di dare immagini normative, pedagogiche di condotta sociale, di milizia rivoluzionaria.» I.Calvino , prefazione del 1964 al suo romanzo I sentieri dei nidi di ragno.

    Scrittori come Fenoglio, Vittorini, Bufalino, Pavese e Calvino, con le loro opere letterarie  ricostruirono la storia di quei tragici anni dando senso, contenuti, e quindi il giusto peso specifico, all’epopea partigiana e alla storia di quei giorni. Senza Il partigiano Johnny e Una questione privata di Fenoglio, Portrait di Joyce Lussu, Uomini e no di Vittorini, ecc., non sapremmo nulla della realtà umana né dei giovani benestanti e borghesi, né dei contadini e degli operai che aderirono alla lotta armata “per una questione privata” che qui si deve tradurre in “per una reazione irrazionale”.

    Fu la  somma di queste motivazioni private e di queste intenzionalità inconsce che produsse la Resistenza. Furono l’odio, la ripugnanza, il ribrezzo, l’indignazione, la repulsione “organica”, per il nazifascismo, esplosi in ogni donna e uomo che “subirono” l’imperio interiore di questi sentimenti che eludevano ogni possibilità di raziocinio, a creare la lotta partigiana, e non certamente un’ideologia. Comunismo e Socialismo furono solo involucri in cui molte di queste istanze senza volto e nome trovarono una risposta che a molti di essi sembrò risolutiva… e razionale. Basta saper leggere l’avversione che il protagonista de Il partigiano Johnny ha per il commissario comunista del suo gruppo partigiano per capire questi contenuti resistenziali.

    La genesi della Resistenza in Italia, pur avendo molte similitudini con altre forme di reazione al nazifascismo in altri paesi, non può essere assimilata a nessun altra ribellione. Poche settimane dopo l’8 settembre del ‘43, gli italiani nascostamente informati da Radio Londra e dalle radio americane, sapevano che le cose stavano volgendo al peggio per gli antifascisti. Un segnale forte fu dato anche dalla repentina deportazione degli italiani di religione ebraica del ghetto di Roma: notte del 15-16 ottobre 1943, solo pochi giorni dopo l’armistizio firmato da Badoglio. In quei giorni si cominciò ad intuire chi fossero i fascisti e i loro padroni tedeschi.

    Anche le prime incerte notizie delle fucilazioni di alcuni renitenti alla leva militare, non facevano ben sperare: «La notizia rimaneva sull’Italia come nube nera: tutti ormai avevano capito che cosa erano disposti a fare i fascisti …» Beppe Fenoglio – Il partigiano Johnny

    Un episodio narrato da Joyce Lussu nel libro Portrait, fa ben comprendere lo stato d’animo privato di chi, quasi a livello organico  – dato che la scissione tra corpo e mente si era dissolta di fronte a tanta crudeltà – non poteva più accettare la ferocia dei nazifascisti moltiplicatasi dopo l’8 settembre.

    1. Lussu racconta che nei giorni che seguirono l’armistizio firmato da Badoglio, Roma, dove ella viveva in clandestinità con il marito Emilio Lussu, fu invasa da truppe tedesche che nelle vie del centro insultavano gli italiani, (scheinze dreck! italiani traditori) li malmenavano e li derubavano dei portafogli e degli oggetti d’oro. Lei era tornata da poco dall’Inghilterra dove era stata addestrata all’uso delle armi: «Io ero tornata da poco nel mio paese (…) e quegli insulti e quelle ingiurie mi arrivavano addosso come pietre. (…) svicolai in un vicolo per non farmi fermare e andai a casa (…) Cercai tra la mia roba il coltello a serramanico, infilai un soprabito con due ampie tasche e in quella destra misi il coltello. Poi uscii, alla ricerca di un tedesco da ammazzare». Fu solo il caso ad impedire a Joyce Lussu di uccidere un soldato tedesco che aveva già individuato: il passaggio improvviso di una pattuglia nemica. Ma l’intenzione tutta “privata” di uccidere per un insopprimibile moto interiore un tedesco che in quel momento incarnava ciò che ella odiava con tutte le sue forze, c’era stata, eccome.

    Ed è sempre lei, che in seguito divenne amica e traduttrice di Nazim Hikmet, che racconta nel suo libro-diario citato, le violenze, negli anni venti, dei fascisti sul padre e sul fratello quindicenne. Le violenze continue, capillari, fisiche e culturali, che per vent’anni paralizzarono gli italiani. E, se è vero che la maggior parte di essi aderì passivamente al fascismo, è anche vero che moltissimi di loro furono costretti a quell’adesione perché l’unica alternativa sarebbe stata una vita di stenti e/o subire la violenza fisica, il carcere, la morte per percosse. E come poteva esserci una via d’uscita se la maggior parte dei preti furono confidenti dell’Ovra e del partito fascista, stilando con zelo, suggerito dal Concordato del ‘29, (art. 20) rapporti di “condotta morale e politica”  di tutti i loro parrocchiani.

    I civili, che per alcune settimane dopo l’arresto di Mussolini avevano respirato finalmente un po’ di libertà, e i militari, che dopo l’8 settembre si salvarono dagli eccidi dell’esercito tedesco e dalla deportazione in Germania, non potevano più sopportare di rientrare nei ranghi fascisti. Se fino ad allora avevano vissuto, quasi tutti, in uno stato di torpore alimentato dalla propaganda fascista, dopo quella data, che creava una cesura psicologica insormontabile con il recente passato,  non fu più possibile negare uno stato delle cose che strideva troppo con una appena raggiunta presa di coscienza dell’abominio sociale e culturale in cui erano vissuti fino ad allora senza quasi rendersene conto.

    L’annullamento della verità, legittimato da una propaganda pervasiva, e la scissione tra essere ed apparire, che impediva di venire a diretto contatto con la propria e con l’altrui realtà umana, fu spazzato via in pochi giorni; e gli italiani aprirono gli occhi cisposi come quando ci si sveglia da un incubo. E in quell’incubo, costasse anche la vita, non era più possibile fare ritorno.

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    Alcuni di loro, pochi,  già avevano portato avanti con molta fatica piccoli e grandi rifiuti. Pietro Chiodi che fu professore di filosofia nel liceo classico frequentato da Beppe Fenoglio, ricordò in un’intervista, l’ostinato rifiuto di quel ragazzo alto, magro e caparbio, di svolgere un tema ministeriale obbligatorio di elogio della marcia su Roma. A diciotto anni, e siamo nel 1940, Beppe Fenoglio aveva le sue idee private ben chiare per quanto riguarda il rifiuto intellettuale al fascismo. Lo scrittore piemontese, che in un primo momento fu un convinto monarchico, almeno fino al 1947, in seguito, venuto a contatto con la classe operaia malpagata e vessata dalla nuova classe imprenditoriale, pur non aderendo al comunismo, divenne di sinistra: «Fu così che insieme ci incamminammo per gli amari sentieri della sinistra non comunista» disse Pietro Chiodi in quell’intervista.

    L’Italia, dall’8 settembre del 1943 al 25 aprile del ‘45, e oltre, fu dilaniata da una feroce guerra civile. Da una parte truppe tedesche, polizia tedesca, Gestapo, esercito repubblichino, bande criminali come la famigerata Muti e la Decima Mas repubblichina, e dall’altra truppe del disciolto esercito italiano che fuggirono sulle montagne attorno alle città e gruppi eterogenei di cittadini di tutte le età e di tutte le estrazioni sociali che dopo il senso di liberazione provato per l’arresto di Mussolini non potevano e non volevano tornare a vivere sotto quell’oppressione che impediva loro un’esistenza reale ed umana.

    Coloro che divennero partigiani dopo l’8 settembre gettarono al di là del ponte che divide l’umano dal disumano la propria immagine. Immagine interna a cui non potevano più rinunciare. È per questo che la storia della Resistenza, la storia della sua nascita e del suo divenire, è “una questione privata”.

    8 settembre 2013

    Leggi qui una sintesi cronologica degli accadimenti dall’undici giugno 1943 (sbarco in Sicilia delle truppe americane) al 2 settembre 1945 (resa del Giappone)

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